Bias cognitivi e modelli epidemiologici

La proliferazione di modelli epidemiologici, specie oggi in epoca Covid-19, che cercano di predire l’andamento delle epidemie ha un risvolto preoccupante: il rischio di sopravvalutare la capacità effettiva di tali modelli nello stimare ciò che accadrà. In realtà, la scienza non ha la palla di vetro e se pensiamo il contrario è un nostro problema. Anzi di un bias cognitivo che entra in funzione in modo quasi automatico – di Antonio Scala, presidente di Big Data in Health Society

https://www.pnas.org/content/early/2020/09/30/2007868117

Il fenomeno è spiegato molto bene dall’esperto di matematica finanziaria e teoria della probabilità, Nassim Nicholas Taleb che nel suo libro “Fooled by randomness” si sofferma a descrivere la figura del “genio” in finanza, ovvero colui il quale realizza ingenti guadagni in base ad algoritmi o metodologie “scientifiche” relative alle predizioni sui mercati finanziari. Osservando i pochi fortunati, siamo portati a pensare che siano persone che hanno veramente capito i “segreti” del mercato o che comunque siano in grado di capirlo. In realtà, così facendo, ci si dimentica della stragrande maggioranza di persone, anch’esse “armate” di algoritmi e metodologie personalizzate, che ogni giorno falliscono miseramente. Niente paura: nel far questo, si è solo attivato nella nostra percezione un bias cognitivo – vale a dire, un meccanismo di distorsione dei giudizi – ben conosciuto, quello che ci porta a guardare le persone di successo e ci fa poi sottostimare il fatto che tale successo a volte possa essere dovuto al caso e non alla competenza.

Nel caso delle epidemie, sta avvenendo qualcosa del genere. Alcune delle loro caratteristiche generiche sono infatti ben illustrate dai modelli matematici, che possono anche avere un notevole successo nel riprodurre dati empirici attraverso parametri opportunamente scelti. Tuttavia, come ci mostra un recente lavoro sulla prestigiosa rivista PNAS (dal titolo “The turning point and end of an expanding epidemic cannot be precisely forecast”), il modello in sè non garantisce un viatico affidabile nell’anticipare le fasi epidemiche successive. 

Per illustrare questo punto, gli autori dello studio su PNAS hanno analizzato la propagazione del COVID-19 in Spagna, facendo uso di uno di questi modelli ma giungendo a dimostrare come le previsioni per la sua successiva evoluzione fossero disparate, persino contraddittorie. In altre parole, il futuro delle epidemie in corso è così sensibile ai valori dei parametri che le previsioni sono significative solo entro una finestra temporale ristretta e in termini probabilistici, proprio come siamo abituati a fare le previsioni del tempo.

Bisognerebbe quindi assumere un atteggiamento scientificamente maturo, in linea con gli avanzamenti epistemologici del 20mo secolo, ed abbandonare la pretesa di avere modelli “a sfera di cristallo” per l’epidemia. Da un lato, come in meteorologia, andrebbe rafforzata la raccolta dati per migliorare le previsioni probabilistiche a breve termine; da questo punto di vista, in Italia il tentativo di realizzare applicazioni condivise per il tracciamento del COVID19 si è rivelato purtroppo altamente fallimentare (vedi IMMUNI). Dall’altro, come in climatologia, bisognerebbe ricorrere ad analisi di scenario in cui si cerca di capire quali siano i “parametri chiave” su cui intervenire per mitigare una epidemia (vedi ad esempio “Time, space and social interactions: exit mechanisms for the Covid-19 epidemic“).

Bisogna inoltre allargare il campo di indagine. Se è vero che bisogna rinunciare a previsioni “certe”, è vero pure che se fossimo in grado di integrare l’enorme mole di dati a nostra disposizione – attraverso una sempre più urgente politica di Data Sharing – sarebbe possibile espandere i modelli sia in direzione verticale (ad esempio integrando la biochimica dei virus ai pattern comportamentali delle persone per aumentare le capacità predittive dei modelli epidemiologici) che in direzione orizzontale, ampliando le valutazioni dell’impatto di una epidemia al campo economico (vedi ad esempio “Economic and social consequences of human mobility restrictions under COVID-19”) e sociologico (vedi “The COVID-19 social media infodemic”). Fino ad ora, i risultati sono spesso stato frutto di iniziative di singoli gruppi di ricercatori che hanno deciso di valicare le frontiere delle singole discipline per riuscire ad analizzare i problemi nella loro globalità. Per affrontare una realtà complessa, servono nuovi spazi veramente interdisciplinari, laboratori che coniughino la Data Science con la  complessità dei sistemi sociali, luoghi dove la comunicazione e la collaborazione fra le discipline sia facilitata e praticata. 

In conclusione, pur senza perdere fiducia nella scienza, dovremmo smettere di pensare che la scienza tout court possa raggiungere sempre e comunque risultati “certi” come quelli della fisica o l’ingegneria. La scienza ci ha aiutato e continuerà a farlo, ma è un processo di tentativi ed errori, non la via per discernere il vero dal falso, e pur con tutti i suoi limiti spesso determinati dalla comunità scientifica, rimane lo strumento migliore che abbiamo per analizzare i problemi e darne una serie di possibili soluzioni. Quale di queste scegliamo, sta a noi, sta alla nostra etica. La scienza ci disegna gli scenari del possibile, ma sta poi alla politica informata decidere in quale direzione andare.