Quando Covid-19 è di genere femminile. I dati.

– di Fabio Fantoni, segretario generale Agenzia IGOR. L’analisi Caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all’infezione da SARS-CoV-2 dell’ISS relativa ad un campione di 35.563 pazienti deceduti e positivi all’infezione da SARS-CoV-2 in Italia, ha evidenziato che le donne sono circa 15.155 (42,6%) ed hanno un’età maggiore rispetto agli uomini (85 anni a fronte di 79 anni). Per spiegare questo fenomeno sono state avanzate alcune ipotesi, tra cui il possibile ruolo protettivo degli estrogeni nelle donne in età fertile

In base ai dati della Sorveglianza Integrata Covid-19 in Italia, complessivamente le diagnosi di Covid-19 hanno riguardato per la maggior parte donne: circa il 53% dei casi si è verificato, infatti, in soggetti di sesso femminile. Nel periodo dal 17 al 30 agosto 2020 le diagnosi di Covid-19 hanno riguardato però in misura minore le donne rispetto agli uomini: circa il 56% dei casi si è verificato in soggetti di sesso maschile, circa il 44% in soggetti di sesso femminile. In particolare, tra gli operatori sanitari, professione in cui le donne sono più rappresentate, quasi il 70% delle persone contagiate da SARS-CoV-2 è di sesso femminile.

E’ quanto si può leggere in merito agli ultimi dati ufficiali pubblicati e disponibili sul sito del Ministero della salute e dedicati all’impatto del Covid-19 sul genere femminile.

Come tutte le malattie, anche la pandemia da COVID 19 dimostra di avere impatto diverso in uomini e donne. Pressoché in ogni Paese viene riportato un maggior numero di donne colpite ma una maggior mortalità negli uomini, per quanto anziani ed affetti da un maggior numero di patologie associate.

Sempre secondo le valutazioni del Ministero della Salute, le donne hanno un rischio inferiore di sviluppare forme gravi o letali di Covid-19 rispetto agli uomini. L’analisi Caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all’infezione da SARS-CoV-2 dell’ISS relativa ad un campione di 35.563 pazienti deceduti e positivi all’infezione da SARS-CoV-2 in Italia, ha evidenziato che le donne sono circa 15.155 (42,6%) ed hanno un’età maggiore rispetto agli uomini (85 anni a fronte di 79 anni). Per spiegare questo fenomeno sono state avanzate alcune ipotesi, tra cui il possibile ruolo protettivo degli estrogeni nelle donne in età fertile. Gli estrogeni, infatti, sono in grado di aumentare la presenza di ACE2 (Angiotensin Converting Enzyme 2, Enzima di Conversione dell’Angiotensina), recettore mediante cui SARS-CoV-2 penetra nelle nostre cellule, facendo sì che questo enzima, anche dopo l’infezione, riesca a svolgere la sua funzione di protezione, in particolare nei confronti dei polmoni.

“Da un punto di vista epidemiologico, la prognosi più favorevole delle donne infettate da SARS-CoV-2 sembrerebbe dipendere da una risposta immunitaria più rapida ed efficace, su base ormonale e genetica. Nonostante la maggior parte dei geni su uno dei 2 cromosomi X della donna venga inattivato, a causa della pericolosità di un “sovradosaggio genico”, circa il 15% sfugge a questo fenomeno, determinando una maggior attivazione del sistema immunitario. Inoltre, uno dei geni che sfugge all’inattivazione è proprio ACE2, l’enzima che il SARS-CoV-2 utilizza per entrare nelle cellule ospiti, e che ha un effetto vasodilatatore e protettivo per tutto l’organismo. Quando il SARS-CoV-2 entra nelle cellule ospiti, provoca una perdita di ACE2. Le donne, esprimendo più ACE2, compenserebbero questa perdita e manterrebbero livelli di ACE2 adeguati per il mantenimento dell’omeostasi dell’organismo, Inoltre, le donne presentano meno co-morbidità e sono più attente verso comportamenti preventivi rispetto all’infezione come la cura dell’igiene personale”. Dott.ssa Barbara Illi, genetista e ricercatore presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR).

Ma cosa accade nelle donne rispetto al periodo della gravidanza in tempi di COVID-19? C’è forse una sorta di protezione ormonale per il virus sars-cov-2 data dalla presenza di estrogeni? Ebbene, “la componente ormonale di una donna in età fertile è protettiva rispetto a numerose patologie. Sono gli estrogeni a svolgere questo ruolo protettivo, agendo sul sistema immunitario in dipendenza della loro concentrazione nel sangue e aumentando i livelli di ACE2. Per queste motivazioni, gli studi epidemiologici ci indicano che quando una donna sana in età fertile contrae SARS-CoV-2 sia minore la percentuale di contrarre la polmonite interstiziale da COVID-19. Questa protezione, inoltre, si esplica in modo particolare durante la gravidanza. L’aumento degli estrogeni in gravidanza, infatti, attiverebbe la risposta antinfiammatoria e immunosoppressiva, importante al fine della regolare crescita del feto, e aumenterebbe ACE 2 proteggendo la gravida dalla COVID-19. Questo è vero soprattutto quando i livelli di estrogeni sono elevati: secondo e terzo trimestre di gravidanza. Studi scientifici, inoltre, dimostrano che in queste fasi di gravidanza il virus non si trasmette al feto e che i prodotti biologici quali il sangue del cordone ombelicale o il latte materno di una mamma infetta, non sono infetti. Bisogna prestare particolare attenzione, tuttavia, al primo trimestre di gravidanza, del quale non abbiamo molti dati, e al monitoraggio della pressione sanguigna in tutte le fasi della gravidanza. In caso di infezione da SARS-CoV-2, infatti, potrebbe essere più frequente una malattia gravidanza-correlata: la preclampsia”. Dott.ssa Pierangela Totta, PhD fisiologa e Direttore Scientifico di Futura Stem Cells.

Interpretare tali differenze  alla luce dei soli fattori biologici, per quanto reali e significativi (diversi cromosomi, diversa risposta immunitaria, diversi ormoni, etc.) rischia però di essere riduttivo per disegnare un quadro il più possibile completo.

“L’insorgenza ed il decorso della malattia, infatti, è determinata anche da fattori socio-culturali che incidono diversamente nei due sessi – interviene Serenella Civitelli, docente di Chirurgia e Salute della Donna all’Università di Siena e membro dell’Associazione Donne e Scienza – Gli uomini, infatti, presentano, più delle donne, fattori di rischio legati ad una maggior abitudine al fumo e ad uno stile di vita poco salutare oltre che alla  minor adozione di strategie preventive ed igieniche, anche specifiche (uso di mascherine, rispetto del distanziamento sociale, lavaggio delle mani). Per quanto riguarda il COVID-19, il rischio di contagio è risultato particolarmente elevato nelle persone impegnate nel settore socio-sanitario, nel quale le lavoratrici sono circa il 70% e si sono dimostrate più soggette, oltre che all’infezione, a stress, depressione, ansia e burn out e maggiormente desiderose di un supporto psicologico (Stress, burnout and depression in women in healthcare during covid-19 pandemic: rapid scoping review – Abi Sriharan- https://doi.org/10.1101/2020.07.13.20151183 pre-print 2020; Felice C. et al: Impact of COVID-19 Outbreak on Healthcare Workers in Italy: Results from a National E-Survey – Journal of Community Health (2020) 45:675–683 https://doi.org/10.1007/s10900-020-00845-5). La mancanza di adeguati dispositivi di protezione, generalmente pensati e predisposti sul modello maschile, è stata poi un’ulteriore fonte di stress e di rischio “di genere” tanto che la testata inglese The Guardian ha titolato, molto efficacemente “Sessismo sul fronte COVID: i dispositivi di protezione sono fatti per giocatori di rugby”.

https://www.theguardian.com/world/2020/apr/24/sexism-on-the-covid-19-frontline-ppe-is-made-for-a-6ft-3in-rugby-player.

Al momento in cui scriviamo, nel Mondo, sono stati confermati 37.704.153 casi di COVID-19 e 1.079.029 decessi. L’infezione sembra aver colpito il 47% di donne ed il 51% di uomini, con leggere variazioni nelle diverse fasce d’età, ed aver causato una maggior percentuale di morti nel sesso maschile (58%) https://covid19.who.int. Tuttavia, solo il 40% delle segnalazioni riporta dati disaggregati per sesso per cui qualsiasi interpretazione relativa alle differenze di genere va fatta con grande cautela.

In Italia, dal rapporto prodotto congiuntamente dall’Istituto Nazionale di Statistica (Istat) e dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) (https://www.istat.it/it/files//2020/07/Report_ISS_Istat_Cause-di-morte-Covid.pdf), risulta che, al 25 maggio,  il 63% dei decessi di soggetti diagnosticati microbiologicamente con test positivo al SARS-CoV-2, è di sesso maschile e la differenza si conferma nel rapporto  dell‘ISS (dati al 7 settembre) (https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/sars-cov-2-decessi-italia) dal quale risulta che le donne rappresentano  il 42,6% delle persone decedute ma, anche nei dati italiani, l’analisi disaggregata per sesso è solo parziale e quella più approfondita è condotta nelle persone decedute nelle strutture ospedaliere.

“Oltre alla sopravvivenza direttamente legata alla malattia – continua Civitelli – altre conseguenze del COVID-19, sia a breve che a lungo termine, hanno avuto, hanno ed avranno pesanti ricadute sulla salute, non uguali per i due sessi. La chiusura in casa e le altre misure di restrizione adottate per impedire la diffusione della malattia hanno portato a ridiscutere i ruoli e le modalità di convivenza all’interno delle famiglie per far fronte alle nuove esigenze (acquisti, lavori domestici, necessità di gestire i figli e gli anziani, spesso  senza poter ricorrere alla rete di aiuti familiari o professionali), comprese quelle indotte dalla riorganizzazione del lavoro e dal ricorso allo “smart working”. Il carico è risultato maggiore per le donne, che si sono trovate anche a fronteggiare la convivenza con eventuali partner violenti. Con l’introduzione del lockdown le denunce e/o le richieste di aiuto per violenza domestica sono aumentate, in media del 30% in molti Paesi del Mondo, compresa la Francia https://interactive.unwomen.org/multimedia/explainer/covid19/en/index.html. In Italia, tra marzo e giugno 2020, le chiamate al numero verde 1522 sono più che raddoppiate rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (+119,6%) e le richieste di aiuto tramite chat è quintuplicata  https://www.istat.it/it/archivio/246557. Fattori scatenanti la violenza sono da ricercare, oltre che nella convivenza obbligata, nelle restrizioni di movimento e nella desertificazione degli spazi pubblici ma anche nell’insicurezza prodotta dall’incertezza lavorativa o dalla perdita di guadagno”.

In conclusione, a fronte della tragedia che ha rappresentato ed ancora rappresenta, il COVID-19 sta dimostrando, qualora ce ne fosse ancora bisogno, la necessità di adottare una lente di genere nella raccolta e nella lettura dei dati, nella impostazione degli studi e nella adozione di politiche sanitarie e socio-economiche che tengano conto dei molteplici determinanti della salute al fine di garantire a tutti, uomini e donne, prevenzione, diagnosi e cure personalizzate.