Open Data e COVID-19. Opportunità mancate e sfide future

di Maria Luisa Chiusano, Professore di Biologia Molecolare, Università Federico II di Napoli

L’esperienza del COVID19 sottolinea la necessità di una raccolta programmata e sistematica dei dati clinici per la salute ed il benessere a livello mondiale. Nell’era del digitale e dei BIG Data queste opportunità devono divenire priorità delle azioni a livello internazionale, affinchè i dati siano coerenti, interoperabili e accessibili.

La pandemia COVID19 ha evidenziato come l’uso delle tecnologie digitali abbia innanzitutto favorito il rispetto del necessario distacco fisico, preservandoci dal distanziamento sociale che avrebbe segnato ancor più la drammaticità dell’isolamento.

In ambito salute, inoltre, le opportunità offerte dal digitale per la prevenzione, il monitoraggio, la gestione degli aspetti connessi, già in attiva evoluzione grazie anche alle direttive internazionali che mirano ad una sanità digitalizzata (https://digitalhealtheurope.eu/), hanno avuto ulteriore slancio, causa pandemia. Si pensi alle progettualità in via di realizzazione per il controllo dell’infezione: rilevamenti automatici di parametri clinici a distanza, applicazioni telefoniche per monitorare gli spostamenti, l’agevolazione della comunicazione in sicurezza tra paziente-medico-ospedale, droni per il controllo dell’isolamento sociale, che si aggiungono agli strumenti per l’assistenza sanitaria per chi ne ha bisogno, i malati, gli anziani.

Ma nell’era dell’evoluzione delle tecnologie digitali, della globalizzazione, dei BIG DATA, sembra che qualcosa sia sfuggito all’attenzione: sono mancati i dati. I dati potenzialmente utili per comprendere la malattia e le cause di morte non sono ancora circolati. Forse, causa emergenza, non sono stati proprio raccolti.

E’ stato ammesso da tutti: non si è stati pronti ad un’azione coordinata, nonostante le previsioni (Osterholm 2005, Preparing for the next pandemic), nemmeno nella raccolta dati, in modo che potesse essere significativa ed utile alla ricerca scientifica anche durante l’emergenza. Del resto, storicamente, i coronavirus non sono mai stati un problema sanitario rappresentativo della nostra società. E’ stato quindi comprensibile che, sebbene una epidemia possa essere sempre alle porte in un mondo globalizzato, non si fosse pronti a predisporre mascherine, ventilatori, sale di rianimazione più  capienti, o personale qualificato nella gestione di malattie ad alto rischio di infezione. Tantomeno è stata pronta, quindi, la raccolta digitalizzata di dati sanitari adeguati, perché le direttive internazionali per una trasformazione digitale di una gestione sanitaria sostenibile e trasparente sono ancora in fase di implementazione (https://ec.europa.eu/info/sites/info/files/communication-european-strategy-data-19feb2020_en.pdf)

A causa dell’emergenza, verosimilmente, è anche sfuggita l’importanza e la necessità di una organizzazione repentina verso uno sforzo programmatico internazionale ai fini di raccogliere in modo sistematico informazioni sui pazienti: loro sintomatologia, storia clinica, le loro cure pre- e post- infezione. Stiamo parlando di dati necessari e utili per capire e disporre di informazioni congrue e comparabili, non solo per le decisioni politiche, per gli esperti di settore, per le imprese, per i cittadini, ma soprattutto per la ricerca! Per gli scienziati, intesi come quelli che possono studiare, comprendere, suggerire azioni guidate da evidenze, e non esclusivamente basate su esperienze pregresse, peraltro mai così gravi.

E la percezione della discordanza delle informazioni emerse è stata generale. La popolazione mondiale ha cercato conforto nei social network, nei meeting via web, ovunque fosse possibile capire quello che i canali televisivi cercavano affannosamente di spiegare, avvalendosi di numerosi attori, giornalisti, personaggi dello spettacolo, esperti di settore, spesso, ancora una volta in contraddizione tra loro e rispetto alle evidenze che emergevano dalla pandemia. Il paradosso è che la stessa cosa hanno dovuto fare i ricercatori per orientarsi e dare un eventuale contributo, non essendoci dati, mancando collezioni accessibili organizzate.

Uno degli insegnamenti del COVID19 è che i dati devono circolare con un coordinamento mondiale, fondamentale in un evento pandemico. La ricerca deve disporre di elementi per andare avanti, e guardare adeguatamente indietro anche quando limitata nelle sperimentazioni in epoca locked-down. L’interesse mirato alla ricerca di un vaccino potrebbe così accompagnarsi a sforzi paralleli e concertati così da focalizzare meglio l’obiettivo sul “contro che cosa”, offrendo modalità di cura preventive e di supporto.

La raccolta di dati e informazioni utili è l’unica cosa che può fare della morte di migliaia di persone un valore aggiunto: la guida alla comprensione del perché e del come, patrimonio di tutti coloro che possono dare contributi all’avanzamento delle conoscenze.

E da più di un centinaio di morti al giorno oggi si evince con chiarezza solo quello che Worldmeter (https://www.worldometers.info/coronavirus/), sistema web che raccoglie dati globali sulla pandemia,  ha potuto misurare a livello mondiale: molti morti, più uomini che donne, più anziani che giovani. E il virus è ancora tra noi!

Visto che i mezzi e le capacità sono ora disponibili e le necessità sono ormai chiare, saremo pronti per la prossima sfida?

Infine, vorrei chiudere esprimendo un dubbio legittimo, proveniente da chi vive nella comunità scientifica e contribuisce a pubblicare il proprio lavoro di ricerca. In breve, andrebbe rivisto il paradigma secondo il quale “un dato scientifico deve passare attraverso una pubblicazione scientifica”.

Chiediamoci se l’ammontare complessivo dei lavori COVID19 da Marzo 2020 ad oggi sia poi stata davvero scienza. Ad uno sguardo più attento, si è trattato di revisioni di lavori scientifici emersi durante le epidemie pregresse di SARS e MERS, o di analisi statistiche sulla diffusione della pandemia, di elenchi di numero di malati e loro caratteristiche cliniche. Poca tracciabilità dei risultati utili, poco controllo della qualità, pochi dati e non comparabili, nonostante le migliaia di morti. Siamo certi che l’infodemia che ne è conseguita e che ha contribuito a creare confusione e sfiducia nella scienza presso i cittadini non abbia alcuna relazione con tutto questo? Restituire piena fiducia alla scienza, aperta, autorevole, documentata. Ecco un’altra opportunità mancata in epoca di COVID-19. Ci attende un futuro necessariamente fatto d’impegno che faccia tesoro delle esperienze appena vissute e per la condivisione della scienza: quella che si basa sui dati e le giuste intuizioni che da essi possono emergere, per tutti.