Comunicare il rischio: come e perchè. E a chi?

– di Giancarlo Manfredi, Disaster Manager. Se concordiamo che la comunicazione delle emergenze debba oggi adattarsi ai caratteri di “multidirezionalità e atomizzazione”, dobbiamo allora necessariamente prevedere progetti operativi per sviluppare la capacità di ascolto e comprensione delle istanze che provengono dalle comunità e, nel contempo, di colloquio tra le Amministrazioni (e le Strutture dedicate alla gestione delle crisi) ed il singolo cittadino. Le tecnologie esistono, ma serve l’umiltà (e il senso di appartenenza alle proprie comunità) per ascoltare e recepire i cosiddetti “feedback”

Non solo le catastrofi naturali ma anche le pandemie hanno dimostrato e stanno dimostrando tutto il proprio indice di rischio per la popolazione umana. Parlando di nuovi rischi e di altrettanti nuovi sistemi per comunicarne i pericoli (potenziali quanto reali), scopriamo oggi che l’efficacia dei messaggi istituzionali sta perdendo di credibilità, al punto di assistere, quando si parla di prevenzione o gestione delle emergenze, a fenomeni di regressione dai cosiddetti “comportamenti virtuosi”: i messaggi che provengono dai cosiddetti movimenti negazionisti al momento si stanno rivelando – ed in maniera neanche tanto paradossale – addirittura più efficaci.

L’attualità ed i social network ci parlano infatti di una comunicazione istituzionale non sempre vincente, dai contraddittori messaggi sull’utilizzo delle mascherine alla (fallimentare) campagna per l’adozione della App Immuni o per la (disertata) ricerca campionaria di sieroprevalenza, arrivando al recente coinvolgimento da parte del Presidente del Consiglio di famosi web influencer, i coniugi “Ferragnez”, per raggiungere un pubblico giovane, laddove i testimonial usati in precedenza, da Michele Mirabella a Flavio Insinna non hanno certamente “bucato” lo schermo.

In realtà la comunicazione delle emergenze, affinché sia virale, deve oggi seguire altre dinamiche ben esposte a partire dalla teoria memetica (Dawkins, 1976, “Il gene egoista”) e nel concetto di spinta gentile (Richard H. Thaler e Cass R. Sunstein, 2008, “Nudge: Improving Decisions about Health, Wealth, and Happiness”), mirando a formule dello storytelling, l’arte del raccontare epiche quale strategia di comunicazione persuasiva, dove il target del nostro messaggio viene rappresentato come eroe protagonista: dalla narrazione alla vita reale.

Continuare invece ad usare una comunicazione “convenzionale”, che persevera tra clamori e smentite, paure e rassicurazioni, non fa che rendere sempre poco credibili i contenuti meno gradevoli (per quanto reali), oltre a erodere la reputazione delle fonti istituzionali. In tempi dove l’ombra tossica di QAnon si allunga anche sul nostro Paese, insinuandosi in comunità già predisposte ad accettare complottismi vari, è vitale comprendere la psicologia che coinvolge lo spettro della paura e mutarla nell’epica narrativa della protezione. Ma come in tutte le emergenze “tempo dipendenti” ed a sviluppo esponenziale come il COVID-19, ogni ritardo è irrecuperabile …

… Eppure, conosciamo benissimo il problema, ovvero le caratteristiche dei soggetti verso i quali dobbiamo rivolgere i nostri messaggi.

Sappiamo come progettare la comunicazione diversificando il target e dove concentrare le specifiche campagne comunicative. Rimane il fatto che la Complessità (delle emergenze) ha le sue regole: è “volatile”, ovvero turbolenta negli effetti, ma è anche sinonimo di “incertezza” laddove le (molte) cause e le loro conseguenze sono distanti nello spazio e nel tempo;  ed è “ambigua” perché non sempre ci consente di concettualizzare con precisione le minacce prima che diventino letali e di prendere pertanto per tempo le giuste decisioni.

Dalla Teoria dei giochi applicata alla linguistica sappiamo che le parole si configurano come costrutti mobili, ovvero come dei fluidi: strumenti il cui significato muta in rapporto alle funzioni specifiche cui sono destinati e sicuramente dal contesto. Questo è un concetto che, se riportato in scenari tipici della comunicazione delle emergenze all’epoca dei social network, complica di molto la vita a chi si deve occupare di informare, formare e soprattutto diramare allertamenti, allarmi, istruzioni in condizione di urgenza e comunicati nel tempo del post-calamità.

Se le ultime ricerche sulle dinamiche di diffusione delle informazioni in rete hanno, infatti, portato alla luce la comparsa di alcuni meccanismi cognitivi quali il “Pregiudizio di conferma”, le “Camere dell’eco” e la “Polarizzazione”, oggi l’attenzione dei ricercatori si sta rivolgendo verso il lessico, ovvero sulle parole ricorrenti  utilizzate nei “thread” delle varie comunicazioni interattive (i post sui social network), scoprendo dei veri e propri “mainstream” (o “linguaggi gergali”) che hanno la peculiarità di essere però semanticamente non identificabili nei contrapposti gruppi che inevitabilmente si formano e si schierano.

Entra qui in gioco, prepotentemente, la cosiddetta “Sentiment Analysis”, ovvero l’analisi emozionale dei contenuti social, tecnica oggi correntemente supportata da diversi tool informatici, in grado di monitorare le reti social, scaricare grandi quantità di informazioni, esaminare porzioni di testo e indicatori di testo (sintassi, grammatica e punteggiatura), riconoscere significati ed estrarre sentimenti per classificare così i documenti sulla base dell’intensità del “mood” positivo o negativo espresso su specifiche tematiche.

Tale sconfinamento potrebbe rivelarsi fondamentale quando applicato all’ascolto delle conversazioni social sui temi del rischio: paure e falsi allarmi, diffusione delle informazioni errate e di quelle corrette, reputazione delle Istituzioni, posizioni critiche, dubbi e richieste di assistenza.

Cosa serve fare allora, parlando di rischio e di comunicazione del rischio?

Al di là di una struttura informatica dedicata (hardware e software) connessa per l’analisi (dei Big Data) delle comunicazioni in rete, manca soprattutto la conoscenza di questo lessico semantico (parole chiave, termini idiomatici, frasi fatte, metafore, ambiguità e ambivalenze), ovvero il dizionario dei significati ai quali è possibile assegnare una valenza emozionale e una polarità nello specifico contesto.

In conclusione, se concordiamo che la comunicazione delle emergenze debba oggi adattarsi ai caratteri di “multidirezionalità e atomizzazione”, dobbiamo allora necessariamente prevedere progetti operativi per sviluppare la capacità di ascolto e comprensione delle istanze che provengono dalle comunità e, nel contempo, di colloquio tra le Amministrazioni (e le Strutture dedicate alla gestione delle crisi) ed il singolo cittadino.

Le tecnologie esistono, ma serve l’umiltà (e il senso di appartenenza alle proprie comunità) per ascoltare e recepire i cosiddetti “feedback” (non solo “il sentimento della piazza” ma le motivazioni da cui dipenderà la vera risposta ai nostri bellissimi – e talvolta molto teorici – piani di emergenza) al di là di ogni pregiudizio personale.

“Di fatto, ogni silenzio consiste nella rete di rumori minuti che l’avvolge.” (Italo Calvino)