Chi ha ucciso l’app Immuni e perché

  • da Corrierequotidiano.it 7 giugno 2021 – “La storia di Immuni è perfetta per riassumere in un’unica vicenda alcuni degli errori più gravi commessi dal nostro Paese nel gestire l’epidemia dell’ultimo anno e mezzo. Il fallimento dell’applicazione di contact tracing, lanciata esattamente un anno fa, poggia infatti su una serie di problemi che periodicamente hanno limitato la risposta italiana all’emergenza. Finendo per tarpare le ali di uno strumento all’avanguardia, che avrebbe potuto dare il suo contributo nella lotta al coronavirus”.

Il nostro Paese è stato il primo a dotarsi di un’applicazione per il tracciamento digitale dei contatti – la migliore mai uscita dalla nostra pubblica amministrazione – ma ad oggi è tra gli ultimi in Europa per i risultati ottenuti. Immuni era, ed è, solo un tassello in un sistema di salute pubblica che non ha mai creduto fino in fondo nelle potenzialità del tracciamento, con il Ministero della Salute e le regioni impegnate a litigare su chi dovesse prevalere nella gestione della sanità, dimenticandosi che senza il caricamento dei codici l’applicazione sarebbe rimasta silenziosa. E, dati alla mano, così è stato, con la politicizzazione e la strumentalizzazione che hanno prevalso sulla necessità di creare un clima di fiducia intorno ai cittadini e all’applicazione.

Per ricostruire tutti i passi falsi fatti da Immuni, ma anche quelli di successo, abbiamo parlato con alcuni dei protagonisti principali di questa storia, dalla ex ministra per l’Innovazione digitale e la Transizione digitale Paola Pisano ad esperti e scienziati, dai membri della task force che hanno valutato oltre trecento candidati per il contact tracing digitale a chi lavora nel sistema sanitario locale.

Il quadro che emerge parla da solo: avevamo un nuovo strumento tecnologico a disposizione nella catena di risposta all’emergenza e con il passare dei mesi ci siamo accorti che quello che non stava in piedi era la componente non digitale, quella fatta di carta, di telefonate, dei test e delle regole non chiare, per esempio sull’isolamento e le quarantene. La storia di Immuni è perfetta anche per un altro scopo: ricordarci quali errori non possiamo più ripetere quando arriverà la prossima pandemia.

Parte I. Qual è stato l’impatto di Immuni

La prima domanda a cui rispondere è se Immuni sia servita a qualcosa oppure no nel contrastare l’epidemia di coronavirus in Italia. Per avere una stima precisa sarebbe necessaria una ricerca scientifica, ma ad oggi non ce ne sono ancora.

Ma da altri Paesi abbiamo qualche indicazione che una app per il tracciamento può avere un impatto significativo nella gestione della pandemia. Per esempio il 12 maggio 2021 su Nature è stata pubblicata uno studio – realizzato, tra gli altri, dal ricercatore dell’università di Oxford Luca Ferretti – dove si stima che la NHS Covid-19 App, ossia l’equivalente britannica di Immuni, ha permesso di evitare tra i 300 mila e i 600 mila contagi tra settembre e dicembre 2020. Sono stime da prendere con un certo margine di incertezza, ma forniscono alcune delle prime prove epidemiologiche a sostegno dell’efficacia delle app di tracciamento digitale dei contatti. 

Ad oggi calcoli simili per l’Italia non esistono. Ma i numeri a disposizione suggeriscono che il contributo di Immuni sia stato praticamente nullo per limitare i contagi. “Con un calcolo spannometrico, possiamo dire che l’impatto di Immuni sia stato tra le dieci e le cento volte inferiore a quello della app inglese”, ha spiegato a Italian.tech Luca Ferretti, che ha contribuito alla progettazione della app britannica. Dati alla mano, le statistiche di Immuni parlano da sole.

I dati su Immuni

Partiamo dai numeri noti, che come vedremo tra poco sono molto parziali. Le statistiche pubblicamente consultabili sono pubblicate sia in formato open data su Github – una delle piattaforme di condivisione più utilizzate dagli sviluppatori di tutto il mondo – sia sul sito ufficiale del progetto. 

In quanti hanno scaricato Immuni

Al 27 maggio Immuni è stata scaricata poco meno di 10,5 milioni di volte, dunque da quasi un italiano su sei e da circa il 20 per cento della popolazione con un’età superiore ai 14 anni, il limite anagrafico per poter utilizzare la app. È un buon risultato? La risposta è: dipende, ma si poteva – e si doveva – fare sicuramente di meglio.

Immuni è diventata disponibile per lo scaricamento a partire dal 1° giugno 2020. L’app è entrata in funzione l’8 giugno in quattro regioni (Abruzzo, Liguria, Marche e Puglia) in via sperimentale, e poi su scala nazionale il 15 giugno. Immuni ha raggiunto in sei mesi i 10 milioni di download, un traguardo superato dalla app Io – utilizzata per misure come il cashback e il bonus vacanze – dopo nove mesi dal lancio di maggio 2020 (oggi la app Io conta oltre 11,3 milioni di download). Dunque non si può dire che Immuni, sebbene sia stata scaricata solo da una parte ristretta della popolazione, abbia registrato numeri particolarmente bassi, se paragonata ad altre applicazioni promosse dal governo.

Da un confronto con i dati di altri Paesi europei la prestazione di Immuni esce però parecchio ridimensionata. La app britannica – attiva in Inghilterra e Galles, che insieme hanno una popolazione di circa 59 milioni di persone, simile a quella dell’Italia – ha superato i 24 milioni di download, nonostante sia stata lanciata qualche mese dopo Immuni, a settembre 2020.

In Germania la Corona Warn-App, disponibile da metà giugno 2020, è stata scaricata quasi 28 milioni di volte, un numero pari a circa un terzo della popolazione tedesca. Abbiamo però fatto un po’ meglio della Spagna, dove Radar Covid è stata scaricata dal 18 per cento della popolazione. Tousanticovid in Francia ha invece registrato finora oltre 17 milioni di download (i dati si possono consultare direttamente dentro la app), circa il 25 per cento della popolazione.

Grafico 1: L’andamento dei download totali e di quelli giornalieri di Immuni – Fonte: Immuni

Ormai quasi nessuno scarica più Immuni. L’andamento giornaliero dei download nazionali di Immuni – gli unici disponibili in formato open – è tutt’altro che incoraggiante, come mostra il Grafico 1. Da marzo in poi i download di Immuni sono stabilmente sotto i 2 mila al giorno, mentre la soglia dei 10 mila download giornalieri è stata raggiunta l’ultima volta a inizio novembre, nel pieno della seconda ondata. L’ultimo picco è stato raggiunto il 10 ottobre 2020, con circa 241 mila download, mentre il record si è toccato il 2 giugno, con circa 660 mila download.

Questi dati nascondono poi un’ampia differenza tra le regioni. L’andamento dei download giornalieri non è disponibile a livello regionale, ma ogni tanto sul sito di Immuni viene aggiornato un grafico che mostra in quali regioni è stata scaricata di più la app e in quali meno. I dati più recenti risalgono al 15 marzo scorso, quando Immuni era stata scaricata da oltre il 25 per cento della popolazione in Emilia-Romagna (prima in classifica) e dal 14 per cento circa in Campania (ultima in classifica) (Grafico 2).

Quanti hanno segnalato la loro positività 

Il principio alla base di Immuni – e più in generale del tracciamento digitale dei contatti – è che chi scopre di aver preso il virus può avvisare, nella piena tutela della privacy, tutte le persone con cui ha avuto un contatto a rischio. Queste possono così autoisolarsi ed evitare, se a loro volta contagiati, di portare in giro l’infezione. Come vedremo, però, questa idea è tanto semplice concepire, quanto complessa da mettere in pratica.

Al 27 maggio quasi 19 mila persone hanno segnalato la loro positività tramite Immuni. Per avere un ordine di grandezza, basti pensare che da quando è stata lanciata la app su scala nazionale i contagi diagnosticati in Italia sono stati quasi 4 milioni. Tra questi, meno dello 0,5 per cento ha dunque segnalato la propria positività tramite Immuni: una goccia nel mare (anche se va ricordato che non tutti i positivi avevano Immuni o uno smartphone compatibile su cui poterlo scaricare). Il picco delle segnalazioni giornaliere è stato toccato il 18 novembre, con appena 197 positività segnalate con la app. I casi diagnosticati quel giorno erano stati oltre 34 mila.

In Germania le segnalazioni sono state oltre 465 mila, in Inghilterra e Galles quasi 940 mila, in Spagna oltre 63 mila.

Anche in questo caso, le regioni sono andate in ordine sparso. Dal grafico 3, che mostra le positività inviate quotidianamente per singole regioni, è evidente l’ampia differenza tra le diverse aree del nostro Paese. 

Tra le regioni più attive ci sono la Lombardia, l’Emilia-Romagna e la Toscana, mentre in alcune regioni, come Calabria e Molise, Immuni è stata pressoché sempre silente. Negli open data molte regioni registrano per lunghi periodi spesso un “-1” come dato di positività segnalate. Non è un errore: semplicemente, per ragioni di privacy, si è scelto di indicare con “-1” tutte quelle volte che il dato delle positività segnalate è stato inferiore o uguale a 5. 

Quanti hanno ricevuto la notifica di contatto a rischio

La diversità tra le regioni è evidente anche nei dati relativi alle notifiche ricevute per avere avuto un potenziale contatto a rischio con un positivo. Al 27 maggio oltre 98.500 persone hanno ricevuto sul loro smartphone la notifica di Immuni che li avvisava di aver avuto un contatto di questo tipo, ossia di aver trascorso più di 15 minuti di tempo, a una distanza inferiore di 2 metri, con qualcuno che ha poi segnalato la propria positività con la app. 

Grafico 4. Le notifiche inviate da Immuni ai soggetti potenzialmente a rischio – Fonte: Immuni 

Salvo poche eccezioni – come Lombardia, Emilia-Romagna, Lazio e Toscana – le notifiche inviate sono state pochissime. E quasi tutte concentrate durante la seconda ondata, tra fine ottobre e novembre. 

In realtà le notifiche ricevute tramite Immuni sono state di più, perché – spiega il sito di Immuni – la rilevazione delle notifiche è parziale: “Sono infatti rilevate tutte le notifiche per i dispositivi iOS” e “solamente un terzo di quelle inviate da Android che hanno a disposizione la tecnologia necessaria per rilevarle in modo sicuro”.

In ogni caso i numeri di Immuni sono particolarmente bassi, se si confrontano ancora una volta con il Regno Unito. In Inghilterra e Galles, infatti, la NHS Covid-19 App ha inviato ad oggi oltre 1,9 milioni di alert (quasi venti volte i numeri italiani). In Francia quasi 200 mila il doppio che in Italia. 

In generale, a fine ottobre ogni positivo faceva partire con Immuni in media oltre 30 notifiche, numero che poi si è drasticamente ridotto sotto le cinque notifiche nella seconda metà di novembre (Grafico 5). 

Come mai questo calo drastico del rapporto tra positivi e notifiche? Una prima ipotesi è che tra ottobre e novembre le restrizioni del sistema a colori delle regioni abbiano notevolmente ridotto il numero di contatti a rischio, come mostra l’appiattimento della crescita del numero complessivo di notifiche inviate rispetto a quello delle segnalazioni di positività. Un’altra spiegazione, che potrebbe coesistere, è che ci siano stati problemi tecnici sulle notifiche (ci torneremo meglio più avanti). Inoltre, una ragione più plausibile è che sempre meno persone abbiano utilizzato per davvero la app.

Numero cumulativo di notifiche inviate e di positività segnalate – Fonte: Immuni

Lo scarso impatto di Immuni nelle segnalazioni è stato trattato in parte anche da una ricerca uscita in preprint a maggio e realizzata, tra gli altri, da due ricercatori della Fondazione Bruno Kessler (Fbk), che da mesi assiste il Ministero della Salute e l’Istituto superiore di sanità (Iss) per l’analisi dei dati dell’epidemia. Lo studio, basato sulle risposte di 43 mila persone a un questionario, ha mostrato che durante la seconda ondata in Italia solo l’1 per cento degli intervistati che avevano avuto un contatto stretto con un positivo lo avevano scoperto tramite Immuni. Anche qui una percentuale davvero bassa.

Ricapitolando: abbiamo i dati di quante persone hanno scaricato Immuni (circa un italiano su cinque con più di 14 anni); di quanti hanno segnalato la loro positività (circa 19 mila persone, lo 0,5 per cento dei positivi diagnosticati in Italia nell’ultimo anno); e, più o meno, di quanti hanno ricevuto la notifica di un contatto a rischio (meno di 100 mila persone).

Queste statistiche restano comunque parecchio parziali e non ne abbiamo a disposizione altre che aiuterebbero a farsi un’idea complessiva più precisa dell’impatto di Immuni. “La realtà dei numeri di Immuni è probabilmente più bassa di quella che si vede nelle statistiche ufficiali sul sito”, ha spiegato a Italian.tech Ciro Cattuto, professore di informatica all’Università di Torino e Principal Scientist di Fondazione ISI, che ha fatto parte della task force del Ministero per l’Innovazione tecnologica e la Transizione digitale che si è occupata di valutare le varie opzioni per introdurre in Italia il contact tracing digitale. 

Che cos’è dunque che “non si vede” dalle statistiche ufficiali? 

I dati che non abbiamo 

Quanti usano davvero Immuni

I download di Immuni, dicevamo, sono noti. Ma questo numero – circa 10,5 milioni – ci dice poco su quante persone usano, o hanno usato, realmente la applicazione. La statistica sui download non contiene gli aggiornamenti della app o le reinstallazioni, ma include ancora tutti quelli che la applicazione l’hanno disinstallata. Oppure tutti quelli che Immuni l’hanno scaricata, ma la tengono disattivata (ad esempio disattivando il Bluetooth del cellulare).

Detta altrimenti, al momento non è possibile sapere con precisione quante sono le installazioni attive e funzionanti, un problema che anche altri hanno più volte fatto notare negli scorsi mesi. Sembra però che questo dato sia in possesso del governo. A fine ottobre scorso, infatti, Wired aveva scoperto con un Foia (o meglio, con una richiesta di accesso civico generalizzato) che all’epoca oltre il 20 per cento dei download non erano già più attivi. È molto probabile che negli ultimi mesi, con il passaggio della seconda ondata e gli scarsi risultati raccolti da Immuni, questa percentuale sia aumentata.

La differenza tra download e installazioni attive non è una cosa da poco, anzi. E agli esordi della app ha alimentato un po’ di confusione. Tra maggio e giugno 2020, si è spesso sentito ripetere – anche per bocca di diversi politici italiani – che, per funzionare, le app di tracciamento digitale dei contatti dovessero raggiungere una soglia di download del 60 per cento sul totale della popolazione. 

In realtà questa percentuale era frutto di un equivoco e proveniva da alcune stime fatte dall’università di Oxford per quantificare gli effetti del digital contact tracing in rapporto all’utilizzo delle app nella popolazione. Da un lato, le stime dei ricercatori parlavano di utilizzo attivo della app, e non di sole installazioni. Dall’altro lato, non era vero che bisognava raggiungere per forza quella percentuale: anche soglie inferiori di utilizzo potevano dare un contributo nel rendere più efficiente la gestione dell’epidemia, se inserite in sistemi organizzativi di salute pubblica efficaci. Per di più, facendo calare i contagi anche nella fetta di popolazione, per esempio quella più anziana, che utilizza meno gli smartphone.

“Quella percentuale del 60 per cento non era stata pensata per essere comunicata al pubblico, ma per i politici. Il messaggio per loro era: “Guardate che se volete fare funzionare bene una app di digital contact tracing, dovete impegnarvici””, ha spiegato a Italian.tech Luca Ferretti dell’università di Oxford. “I politici hanno invece fissato obiettivi più bassi, mentre il pubblico ha interpretato questa percentuale del 60 per cento come: “Non ce la faremo mai”. In seguito abbiamo stimato una percentuale minima del 15 per cento”. 

Un altro studio di Oxford ha poi mostrato che anche un utilizzo da parte di una persona su sei avrebbe dato comunque un contributo a ridurre contagi e morti (a riguardo, a marzo 2021 su Nature è uscito un nuovo studio italiano, realizzato tra gli altri da ricercatori della Fondazione Bruno Kessler e della Fondazione ISI). “È stata una prova che comunicare bene durante un’epidemia è sempre difficile”, ha aggiunto Ferretti. E la comunicazione attorno Immuni, infatti, è stata uno dei fattori determinanti per il destino della app. 

Per avere maggiori informazioni su quali siano i reali numeri di utilizzo di Immuni, abbiamo contattato Sogei, un’azienda controllata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, che a ottobre scorso ha preso in gestione la app, occupandosi della manutenzione e dello sviluppo, dopo il passaggio di consegne con Bending Spoons, la società che ha creato Immuni ad aprile e maggio 2020. Sogei ci ha risposto che “gli open data sono le uniche informazioni che il Ministero della Salute, titolare dei dati, ha deciso di rendere noto”, consigliandoci di contattare direttamente l’ufficio stampa del Ministero della Salute. Lo abbiamo fatto, più volte, senza mai ricevere risposte puntuali. Per altre applicazioni, come la SwissCovid App della Svizzera, le statistiche ufficiali sugli utenti attivi – anche se stimate – sono pubblicamente disponibili

Discorso analogo vale per il call center di Immuni, che è stato istituito a fine dell’anno scorso per rendere più efficiente il sistema di tracciamento digitale dei contatti. Ad oggi non si sa quante siano le chiamate totali o giornaliere che ha ricevuto il call center – il Ministero della Salute non ha saputo fornirci dati a proposito – mentre in Paesi come la Germania questa informazione è disponibile.  

Quanti contagi sono stati evitati 

Non si conosce poi un altro dato importante per valutare l’apporto di Immuni: quello sul numero di positivi individuati tra quelli che hanno ricevuto una notifica di contatto a rischio. Detta altrimenti, non sappiamo quanti sono stati i focolai evitati grazie alla app. Come abbiamo visto prima, risultati molto incoraggianti in questa direzione – sebbene in contesti sperimentali molto diversi tra loro – sono stati raccolti da studi condotti nel Regno Unito, in Svizzera e in Spagna.  

Oltre un anno fa, il 17 maggio 2020, in un’intervista con il Corriere della Sera Paola Pisano – l’allora ministra per l’Innovazione e la Transizione digitale, che seguiva lo sviluppo dell’applicazione – aveva dichiarato: “Grazie alle elaborazioni fatte sul server di Sogei sapremo in forma anonima e aggregata quanti soggetti sono stati allertati in ogni provincia, quanti poi effettivamente si ammalano, dopo quanto tempo e a quale distanza e in che giorno sono stati a contatto con un infetto”.

In realtà questi dati non sono praticamente mai stati resi pubblici e non si sa se davvero sono raccolti regolarmente. Cinque mesi più tardi, a metà ottobre, la ministra Pisano aveva detto in un intervento alla Camera che i focolai “individuati e contenuti” grazie a Immuni erano stati fino a quel momento 16. Ossia, tra i notificati della app, 16 erano poi risultati positivi. Anche in questo caso abbiamo chiesto al Ministero della Salute aggiornamenti a proposito, senza ricevere risposta. 

“I dati sui focolai evitati ci sono e li ha del Ministero della Salute, così come i dati divisi per regioni e province”, ha ribadito a Italian.tech l’ex ministra Paola Pisano, contattata da Italian.tech. “Il problema della mancata trasparenza dei dati non riguarda solo Immuni, è un problema generalizzato da quando è scoppiata l’epidemia. E io l’ho fatto presente più volte durante le riunioni del Consiglio dei ministri, anche al ministro della Salute Roberto Speranza”.

Non solo: in Italia – a differenza del Regno Unito – non abbiamo neppure una stima di quante persone, ricevuta la notifica di Immuni, abbiano deciso di autoisolarsi, in attesa di capire se avessero effettivamente contratto il virus. Come vedremo meglio più avanti, questo problema si inserisce più in generale nel lacunoso sistema italiano di tracciamento dei contatti, condotto manualmente dalle varie regioni, che per lunghi periodi dell’epidemia è di fatto saltato.

La necessità di avere a disposizione, con trasparenza, il maggior numero di dati è fondamentale. Come hanno spiegato in una lettera inviata a Nature a febbraio 2021 alcuni tra i più celebri epidemiologi al mondo – come Adam Kucharski, professore alla London School of Hygiene & Tropical Medicine, Christophe Fraser, docente all’Oxford Big Data Institute, e anche l’italiana Vittoria Colizza, dell’Istituto nazionale francese per la ricerca sulla salute e la medicina (Inserm) – “il tracciamento digitale dei contatti è una misura sostenibile che può ridurre i livelli di trasmissione della Covid-19”. Ma “una valutazione rigorosa della sua efficacia permette che i benefici dal punto di vista della salute pubblica siano soppesati con gli effetti indesiderati sulla società e i singoli individui. Una valutazione rigorosa è necessaria per sviluppare app di tracciamento dei contatti in strumenti accettati ed etici per le pandemie future di malattie infettive”.

Ad oggi una valutazione scientifica sull’impatto di Immuni non esiste. Ma, come abbiamo visto, i dati sono tutto fuorché positivi. Vediamo adesso come è nata l’idea di fare una app di contact tracing e quali sono state le travagliate, ma soprattutto confuse, origini di Immuni.

Parte II. Come si è arrivati a Immuni

La storia di Immuni non era cominciata male, almeno stando alla rapidità con cui l’app è stata sviluppata. Il 21 febbraio 2020 veniva individuato il primo paziente contagiato dal coronavirus nel lodigiano, l’inizio di un’epidemia che a oggi in Italia ha coinvolto oltre 4,2 milioni di contagi diagnosticati, con oltre 126 mila morti.  

Immuni è comparsa negli store virtuali di Apple e di Google il 1° giugno: in poco più di tre mesi dall’inizio dell’epidemia, quindi, il nostro Paese si era dotato di uno strumento di contact tracing digitale che poteva essere uno strumento in più per l’evitare il ritorno a misure restrittive più severe. 

Le cose, come abbiamo visto, non sono andate come sperato. E alcuni dei motivi per cui Immuni è stata un’occasione fallita si capiscono guardando a che cosa è successo in quella primavera del 2020 e a come si è arrivati alla scelta di adottare un’applicazione di tracciamento dei contatti.

Chi avrà buona memoria si ricorderà che per settimane, tra marzo e maggio 2020, si susseguirono polemiche, sui giornali e non solo, riguardo la possibilità di ricorrere a quello strumento digitale. Ora che sono passati diversi mesi, è possibile farsi un’idea più precisa di quanto è accaduto all’epoca e di come molte discussioni su privacy e salute, per quanto necessarie, siano poi finite nel dimenticatoio, una volta che la app e i cittadini hanno dovuto scontrarsi con la realtà della scarsa organizzazione nazionale e con le spinte verso l’autonomia delle varie regioni.

Qui il nostro viaggio fa un salto indietro nel tempo di quasi vent’anni.

Il digitale come arma in più, non come soluzione

Sin dallo scoppio dell’epidemia di Sars, tra il 2002 e il 2004, nella comunità scientifica si è sempre più rafforzata l’idea che il tracciamento dei contatti possa essere uno degli strumenti più importanti per contrastare l’arrivo di un agente patogeno infettivo sconosciuto. Il perché è semplice: se una volta individuato un paziente contagiato ricostruiamo la catena di persone con cui è entrato in contatto, possiamo isolarle e interrompere così la trasmissione dell’infezione. Decisamente meno semplice è tradurre in concreto questo principio. Una ricerca, pubblicata nel 2004 e realizzata, tra gli altri, dai due famosi epidemiologici britannici Christophe Fraser e Neil Ferguson, spiega quanto la possibilità di tracciare con efficacia i contatti dipenda dalle caratteristiche di un agente infettivo, e in particolare da quanto questo sia contagioso e da quanto questo riesca a diffondersi tra le persone prima che si manifestino i sintomi.

Per fortuna, la Sars è una malattia che si manifesta e diffonde con sintomi molto evidenti, rendendo più semplice il tracciamento, che in ogni caso richiede parecchie risorse. Questo vale per il tracciamento in generale: secondo alcune stime pubblicate a marzo 2020 dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc), servono parecchie ore per intervistare un singolo contagiato e ricostruire manualmente i suoi contatti. 

Qui entra in gioco il Sars-CoV-2 e il digitale, in particolare con un gruppo di ricerca dell’università di Oxford. “Con l’arrivo del nuovo coronavirus l’idea del contact tracing digitale era già nell’aria, per via dell’esperienza passata della Sars, e molte persone nel mondo stavano pensando di provare a utilizzare i mezzi del XXI secolo per il tracciamento”, ha spiegato a Italian.tech il ricercatore Luca Ferretti. “L’approccio della Corea del Sud, che è una delle nazioni più connesse al mondo, non era possibile in altri Paesi, sia per mancanza di substrato tecnologico sia per il fatto che si pensava che i loro metodi non sarebbero stati accettati dalla popolazione occidentale. Paesi come Australia, Stati Uniti, Svizzera e altri in Europa, hanno contemporaneamente pensato di sveltire il tracing via app”.

Il problema principale è stato innanzitutto quello di valutare, numeri alla mano, se il tracciamento digitale avesse la possibilità di aiutare a stare dietro a un virus come il Sars-CoV-2, di cui ancora si sapeva poco. “Abbiamo quantificato quanto fosse fattibile il tracciamento dei contatti, che tempi ci volessero per fermare i contatti a rischio e avere un impatto serio sull’epidemia”, ci ha raccontato Ferretti. “La risposta era molto meno di tre giorni dalla comparsa dei sintomi, al massimo uno o due giorni, altrimenti si perdeva ogni possibile vantaggio. Un altro punto era il numero dei contatti da rintracciare: non dovevano necessariamente essere tutti rintracciati, ma comunque una percentuale elevata, molto più del 50 per cento”.

Lo studio di Ferretti e colleghi, uscito in preprint a inizio marzo e pubblicato ufficialmente su Science il 31 marzo 2020, ha messo nero su bianco le potenzialità del tracciamento digitale dei contatti (che, come abbiamo visto nella prima parte, oggi iniziano a essere confermate da diversi studi sul campo). Come mostra l’Immagine 1, per riuscire a ridurre con forza la diffusione del contagio bisognava rintracciare e isolare almeno la metà dei contatti di un positivo, al massimo a uno o due giorni dal contatto.

“Per aumentare l’efficienza e i tempi del tracciamento, avevamo pensato che lo strumento più adeguato fosse un supporto digitale, l’idea poi alla base delle varie applicazioni di digital contact tracing come Immuni”, ha spiegato Ferretti. “Un punto però che non è stato recepito all’epoca è che noi dicevamo che era fattibile, non che fosse facile. L’idea del tracciamento digitale dei contatti è stata letta in versione soluzionista: si è perso di vista che questo per noi doveva essere solo un pezzo dentro l’intero sistema di salute pubblica. Se si perdevano altri pezzi, come il tracciamento manuale o la capacità di fare test, anche il tracciamento digitale non avrebbe funzionato al meglio. Invece la nostra idea è stata percepita da molti come quella di avere una “app” per risolvere i problemi. E da qui sono nate molte discussioni sulla privacy e su aspetti tecnologici, sì importanti, ma che hanno fatto perdere di vista l’elemento di salute pubblica”.

Come vedremo nella terza parte, questa interpretazione dei fatti è una tra le spiegazioni che gli esperti si danno sul fallimento di Immuni o, a essere più onesti, di buona parte della risposta sanitaria italiana all’epidemia.

Che cosa è successo in Italia

Mentre il 21 febbraio 2020 scoppiava il caso Codogno, in Italia c’era già chi aveva intuito le potenzialità del digitale per contenere l’epidemia, o meglio, chi aveva ripetuto la necessità di mettere in piedi un’efficace ed efficiente strategia delle 3T: Test, Trace e Treat. Tradotto in parole semplici: individuare in tempo i casi positivi; tracciare i loro contatti stretti per interrompere le catene di contagio; trattare gli infetti e i contatti con gli strumenti a disposizione, in primo luogo l’isolamento e il monitoraggio dei sintomi. 

Nel nostro Paese tra coloro che credevano nelle potenzialità del tracciamento digitale c’era Carlo Alberto Carnevale Maffè, associate professor of practice di Strategy and entrepreneurship presso la SDA Bocconi School of Management. Dunque non un accademico attivo nell’ambito dell’epidemiologia, ma in economia e management.

“A inizio 2020 ho iniziato subito a studiare il problema della Covid-19 perché sono amministratore di un’azienda che ha sede anche a Shanghai, in Cina. Mi era stato subito chiaro che i rischi fossero già estremamente gravi all’epoca, quando da noi si pensava il virus fosse ancora lontano”, ha raccontato a Italian.tech Carnevale Maffè. “Al primo caso di Covid-19 in Italia, io e Alfonso Fuggetta, professore di informatica al Politecnico di Milano, ci siamo incontrati e abbiamo subito fatto una proposta alla Regione Lombardia, dove sembrava fosse concentrato il problema, di adottare le tecnologie di tracing che avevamo studiato per la Corea del Sud e Taiwan. La nostra idea era, ed è ancora oggi, che il tracciamento sia in primo luogo un processo organizzativo e logistico, non tanto tecnologico”.

L’obiettivo di chi a livello internazionale stava scommettendo sul tracciamento e il digitale, da Ferretti a Maffè, era quello di evitare l’introduzione di misure drastiche come il lockdown, intervento che poi è diventato tristemente realtà in Italia la sera del 9 marzo 2020.

“Alla Regione Lombardia avevamo proposto un progetto strutturato, che era fondamentalmente il modello delle 3T. Quando è arrivata l’epidemia un errore era dare priorità nel fare i test a chi era ammalato in ospedale, con sintomi evidenti, invece di utilizzarli per interrompere le catene trasmissive tra i contatti stretti”, ha ricordato Carnevale Maffè. “Ricevuta la nostra proposta, la presidenza della Regione Lombardia ci ha risposto: “Siamo già a posto così”, e che al massimo gli serviva giusto qualche letto di terapia intensiva in più. Dal punto di vista dell’interoperabilità dei dati, la Regione Lombardia è una delle sanità più sofisticate d’Europa: ci rivolgemmo a loro con la convinzione che avremmo fatto insieme un eccellente lavoro, ma ci sbagliavamo. La cultura ospedaliera lombarda è stata una iattura in questa circostanza perché c’è stato un eccesso di fiducia: hanno deciso di far convergere l’epidemia sugli ospedali, con i risultati che tutti abbiamo visto”.

Abbiamo contattato la Presidenza della Regione Lombardia per avere la loro versione dei fatti, ma al momento della pubblicazione di questo articolo non abbiamo ricevuto risposta.

Ricapitolando: tra febbraio e gli inizi di marzo, in Europa e in Italia, tra la comunità scientifica e gli addetti ai lavori, prendeva corpo l’idea di usare il digitale per potenziare il tracciamento, senza i livelli di intrusione nella privacy dei cittadini visti in alcuni Paesi asiatici, ma limitando la raccolta dei dati personali. Quand’è che si sono iniziate a muovere le acque anche a Roma?

Il tracciamento digitale arriva a Roma

Tra la fine di febbraio e i primi giorni di marzo 2020 l’idea di affiancare il digitale al tracciamento manuale si fa largo anche tra i palazzi del governo, nella Capitale. “A fine di febbraio abbiamo contattato chi conoscevamo a Roma, per organizzare un efficace sistema di prevenzione, con un prototipo di una app di tracciamento digitale già pronto, come idea di base”, ha ricordato Carnevale Maffè. “L’obiettivo era comunque quello di lanciare un bando per raccogliere più proposte e scegliere l’idea migliore”.

Negli stessi giorni altri progetti erano stati messi in piedi per raggiungere un obiettivo simile. Per esempio, il 18 marzo 2020 il Corriere della sera aveva pubblicato un’intervista a Luca Foresti, amministratore delegato della rete di poliambulatori specialistici Centro medico Santagostino. Foresti aveva rivelato che un consorzio di cui faceva parte aveva sviluppato “una app da scaricare sui cellulari che permette di tracciare in tempo reale i movimenti delle persone positive al coronavirus, di avvertire chi è entrato in contatto con loro ed è quindi a rischio contagio e di individuare sul nascere lo sviluppo di possibili nuovi focolai. Il tutto in modo assolutamente anonimo (…). Stiamo facendo gli ultimi test – aveva detto Foresti – e siamo pronti a metterla a disposizione della Protezione civile”.

Tra i promotori della app c’era anche Bending Spoons, un’azienda con oltre 140 dipendenti che ha sede a Milano, leader internazionale nel mercato delle applicazioni (sul sito ufficiale di Bending Spoons si legge infatti che ogni giorno, nel mondo, vengono scaricate circa 200 mila applicazioni al cui sviluppo ha contribuito l’azienda). “Siamo in contatto con il Ministero per l’Innovazione digitale guidato da Paola Pisano, che ci ha dato il suo supporto”, aveva dichiarato Foresti. “E siamo pronti a collaborare e unire le forze con chiunque abbia sviluppato altri strumenti utili”.

“L’idea è nata a marzo 2020. In un momento molto difficile per il nostro Paese, ci è sembrato giusto fare il massimo per dare una mano, come hanno fatto molti altri. Sviluppare app è ciò che sappiamo fare meglio”, ha detto a Italian.tech Luca Ferrari, co-founder e Ceo di Bending Spoons. “Inoltre, era evidente già al tempo che tracciare efficientemente i contatti è fondamentale per contenere un’epidemia. Pertanto, creare un’app di tracciamento contatti è stata una scelta naturale.

Proprio verso la metà di marzo 2020 un gruppo di esperti ha iniziato a collaborare in via informale con il ministero guidato da Pisano. Soltanto il 31 marzo è poi arrivato il decreto di nomina della task force, divisa in otto sottogruppi e composta da 74 esperti, di cui facevano parte anche Carnevale Maffè (nel gruppo “Tecnologie per il governo dell’emergenza”) e Ferretti (nel gruppo “Big Data & AI for policies”). 

Il 20 marzo il Ministero per l’Innovazione tecnologica e la Transizione digitale, insieme ad altri dicasteri e alla struttura commissariale per l’emergenza, ha lanciato il programma “Innova per l’Italia”, “un programma che invita aziende, università, enti e centri di ricerca pubblici e privati, associazioni, cooperative, consorzi, fondazioni e istituti a fornire un contributo nell’ambito dei dispositivi per la prevenzione, la diagnostica e il monitoraggio per il contenimento e il contrasto del diffondersi del Sars-CoV-2 sull’intero territorio nazionale”. 

Il giorno dopo si è invece tenuta una videoconferenza, indetta dal Ministero della Salute, per definire i tratti essenziali di una linea d’azione per l’introduzione di un sistema digitale di contact tracing, da sottoporre poi ai dovuti passaggi di valutazione da parte delle istituzioni. Così il 23 marzo, all’interno del programma “Innova per l’Italia” è stata lanciata una fast call per raccogliere in tre giorni (dal 24 al 26 marzo) “tecnologie e soluzioni” per il tracciamento dei contatti, che sono poi passate sul tavolo di alcuni membri della task force. Le proposte ricevute dal ministero sono state 319, segno che già da tempo molti avevano preso seriamente l’ipotesi del tracciamento digitale dei contatti.

Il 10 aprile la ministra Pisano ha comunicato al presidente del Consiglio Giuseppe Conte che, al termine della sua valutazione, “il gruppo di lavoro ha indicato nella soluzione denominata “Immuni”, proposta da un pool di aziende con capofila la Bending Spoons Spa, quella più rispondente alle attuali necessità”. Il 16 aprile il commissario straordinario per l’emergenza coronavirus Domenico Arcuri ha così firmato un’ordinanza per siglare il contratto con Bending Spoons, con cui l’azienda si è impegnata a cedere “in licenza d’uso aperta, gratuita e perpetua” il codice della app e le sue componenti applicative. “La società si è poi impegnata, sempre gratuitamente e pro bono, a completare gli sviluppi software necessari per la messa in esercizio del sistema nazionale di contact tracing digitale”, si legge in un aggiornamento uscito il 21 aprile 2020 sul sito del Ministero per l’Innovazione tecnologica e la Transizione digitale. Da quel giorno sono seguiti alcune settimane di sviluppo dell’applicazione, che hanno portato il 1° giugno 2020 alla comparsa di Immuni sugli store di Google e Apple. 

Da questa ricostruzione, le date più importanti della nascita dell’applicazione sembrano tutte molto chiare. Il problema è che all’epoca la gestione della nascita di Immuni, e in più in generale di un’app di contact tracing digitale, è stata tutto fuorché trasparente. Anzi, per molte settimane ha regnato l’incertezza, tanto che il direttore di Italian.tech Riccardo Luna, il 20 aprile 2020, definiva su Repubblica Immuni “la app della confusione”. Molti documenti che oggi abbiamo a disposizione sono stati resi pubblici dopo aprile e i vari membri della task force, nella formazione dei gruppi di lavoro, hanno dovuto sottoscrivere un accordo di riservatezza sulle questioni relative alla app. 

Il 29 aprile 2020 la giornalista Carola Frediani, esperta di digitale e di questioni di cybersecurity, aveva scritto nella sua newsletter Guerre di rete una frase che letta oggi fa capire il clima di confusione che c’era all’epoca, non solo in Italia ma anche in Europa: “Deve essere chiaro che questa faccenda delle app evolve, muta, svolta di giorno in giorno. Per questo è importante cercare sempre di avere notizie confermate, mettendo nel giusto contesto le altre; e seguire costantemente il tema non dando nulla per scontato”. Per quanto riguarda il nostro Paese, quali erano le questioni più ambigue su cui si sapeva di meno?

Chi ha scelto Immuni

All’inizio uno dei tempi più discussi ha riguardato chi avesse davvero scelto Immuni. Innanzitutto, c’era chi sosteneva che Bending Spoons non fosse all’altezza del progetto, accusata di non aver mai sviluppato app in ambito sanitario, ma solo in quello ludico (come la famosa Live Quiz). In realtà gli esperti contattati da Italian.tech hanno sottolineato che questi dubbi erano infondati. “Il team di Bending Spoons aveva una reputazione alta”, ha sottolineato Cattuto a Italian.tech. “Il team di Immuni già si conosceva, ma anche molti altri che si sono presentati, da Tim a Vodafone. I nomi di punta che girano nel mondo dell’innovazione tecnologica in Italia sono quelli”, ha invece evidenziato Carnevale Maffè. Come spiega poi una relazione del 13 maggio del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir), all’epoca oltre il 90 per cento delle quota azionarie di Bending Spoons erano in mano ai quattro fondatori italiani o a ex dipendenti della società, smorzando le polemiche di chi sosteneva l’azienda fosse in mano, ad esempio, cinese.

Ritorniamo sulla questione di chi ha scelto Immuni come app di contact tracing digitale per il Paese. Come abbiamo visto, il 10 aprile la ministra Pisano aveva detto a Conte che l’indicazione era venuta dalla task force, ma nella relazione del gruppo di lavoro degli esperti si legge una cosa diversa. In estrema sintesi e senza entrare nei dettagli tecnici: nella relazione della task force si leggeva che la app Immuni, selezionata tra cinque “finaliste”, fosse più avanti della seconda app selezionata, CovidApp (proposta da un team di sviluppatori indipendenti) perché si trovava in uno “stadio di sviluppo più avanzato” e perché prometteva “maggiori garanzie di interoperabilità e anonimizzazione dei dati personali” (ci torneremo tra poco). La task force non concludeva però di scegliere Immuni, ma di sperimentare in parallelo le due app selezionate, per capire quale funzionasse meglio per poi estenderla a livello nazionale.

“Era un’idea brillante quella di provare due app che andassero in parallelo per vedere concretamente in atto il loro funzionamento”, ha dichiarato a Italian.tech Luca Ferretti. Questa non è stata però la scelta fatta dal ministero.

“Il 1° aprile avevamo la short list e le relazioni della task force erano pronte una settimana dopo. Nell’allegato tecnico non si parlava solo di app, ma di Covid hospital, tracciamento manuale e altro. Il governo non ha capito che il problema non era una app, ma il modello organizzativo delle 3T: bisognava coordinare i test, collegare il tracing manuale e quello digitale al backend regionale, e collegare i processi di profilassi ai Covid-hospital e alle prassi di cura o d’isolamento, che era spiegato nel nostro documento”, ha sottolineato Carnevale Maffè a Italian.tech. “La ministra, con una scelta arbitraria e senza consultarci, ha scelto Immuni e ha fatto fare Immuni, che comunque a noi andava benissimo. Ma noi avevamo proposto di testare due app, provarle sul campo, per i primi al mondo, con il rispetto della privacy. E come prima cosa avevamo suggerito di fare la notifica automatica, perché se si aspettava il funzionario della Asl si finiva nella burocrazia”.

Perché dunque si è sin da subito presa una direzione diversa rispetto a quella indicata dagli esperti? “A noi non è stato chiesto di scegliere la app, ma di fare valutazioni tecniche sulle soluzioni più promettenti e indicare quali fossero delle caratteristiche importanti della app. Per esempio Immuni integrava i componenti di PEPP-PT, ossia una collaborazione europea per creare una tecnologia condivisa e privacy-preserving di contact tracing”, ha detto a Italian.tech Ciro Cattuto.

A quasi un anno da quella scelta, la stessa ministra Pisano rivendica quanto fatto: “Immuni si avvicinava maggiormente alla visione europea che stava nascendo, il consorzio europeo PEPP-PT. D’accordo con il ministro Roberto Speranza, con la presidenza del Consiglio, e con il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza abbiamo scelto la soluzione più avanti dal punto di vista tecnologico e soprattutto con a bordo un gruppo di esperti, il team di Bending Spoons, che aveva già sviluppato applicazioni di successo”, ci ha detto l’ex ministra. “Avessi avuto anche dieci anni per lo sviluppo, avrei fatto la stessa scelta”.

Come abbiamo visto, una sigla che torna di frequente nel ricostruire quanto accaduto nella primavera del 2020 è PEPP-PT, che sta per Pan-European Privacy-Preserving Proximity Tracing. In breve: PEPP-PT era un consorzio europeo, di cui faceva parte anche Bending Spoons, che all’epoca era stato individuato come standard comune di tracciamento per l’Ue. Al suo interno PEPP-PT aveva un altro gruppo, il DP-3T, che puntava a una versione del contact tracing digitale decentralizzata, minimizzando la raccolta dei dati e facendo sì che tutte le attività principali di elaborazione dei dati avvenissero dentro agli smartphone, e non in un server centralizzato. Diverse ricostruzioni giornalistiche avevano però sollevato dei dubbi sulla composizione del consorzio Pepp-pt, che aveva poi deciso di estromettere il gruppo tecnico di Dp-3t, senza neppure una comunicazione di servizio, attirandosi le critiche dell’intera comunità tecnologica europea.

Mentre proseguiva il dibattito tra app centralizzate e app decentralizzate, il 10 aprile 2020 Apple e Google hanno annunciato a sorpresa che stavano collaborando per realizzare una tecnologia in grado di permettere le notifiche per i contatti a rischio sui loro smartphone, ispirandosi di fatto al modello Dp-3t e spianando la strada all’approccio decentralizzato.

“Paesi come Germania e Regno Unito, con tempi diversi, sono passati dall’idea dell’app centralizzata a quella decentralizzata basata sul protocollo Google-Apple. La scelta politica è stata dettata dal fatto che c’erano Google e Apple, che sono una sorta di garanzia, e hanno pensato che fosse la scelta più semplice da fare”, ha sottolineato a Italian.tech Luca Ferretti.

“Le due Big Tech hanno definito lo standard più alto per la protezione dei dati e questo, pur apprezzabile,  non va letto pensando che siano necessariamente virtuose, ma che in questo caso il loro interesse – monetizzare l’ecosistema che governano, che è privato – fosse allineato con il migliore interesse dei cittadini che sono loro utenti”, ha aggiunto Ciro Cattuto. “In termini di governance dei dati è interessante come due compagnie private, non europee, di fatto abbiano fatto policy di come un intervento di salute pubblica sia stato disegnato e consegnato. Dobbiamo molto riflettere su cosa questo significhi per il nostro ecosistema digitale e per la trasformazione digitale”.

Al di là di queste osservazioni, a un certo punto anche l’Italia ha deciso di mollare l’idea di un’app più centralizzata – quella su cui all’inizio sembrava basarsi Immuni – per sposare il protocollo messo in piedi da Apple e Google, che aveva il vantaggio di consentire l’implementazione della app su un maggior numero di modelli (l’implementazione della app, infatti, non poteva per esempio prescindere da specifici permessi da parte di Apple).  

“Dopo la scesa in campo di Google e Apple, mi ricordo bene quando ho preso la decisione di seguire il modello decentralizzato. Aveva due componenti per me importantissime: preservava di più la privacy dei cittadini e la potevano usare più utenti. Con questa scelta abbiamo coperto un maggior numero di smartphone”, ha ricordato l’ex ministra Paola Pisano a Italian.tech. “Nel frattempo il Pepp-Pt si è disgregato. La scelta decentralizzata non è stata una scelta italiana, ma l’ho condivisa sin da subito con l’Europa, per favorire poi l’interoperabilità e l’uso delle app di contact tracing in tutto il continente”. Immuni sarebbe diventata poi interoperabile a ottobre 2020 – permettendo di inviare e ricevere notifiche anche dalle app di tracing di altri Paesi Ue – ma, come abbiamo visto, anche i dati delle segnalazioni all’estero sono stati molto bassi (Immagine 2).

Ritardi nello sviluppo ci sono stati – arrivando a una versione di Immuni molto diversa rispetto a quella concepita in partenza – ma secondo Pisano sono stati dovuti per lo più ai problemi della “burocrazia italiana” e alla necessità di attendere e stare al passo con gli sviluppi provenienti da Apple e Google. 

Ricapitolando: durante le settimane successive al bando del 24-26 marzo 2020, su Immuni si sono susseguite indiscrezioni, spesso non ufficiali, che hanno creato un clima di confusione e incertezza, su chi avesse scelto davvero la app e su quali caratteristiche avrebbe dovuto avere. E qui la responsabilità delle autorità – in generale, sul tema della trasparenza – non è da poco.

“Il problema è stato quello di scegliere prima di tutto una comunicazione opaca, un modo di fare alla “ci pensiamo noi” che poi è imploso a ogni cambio di direzione e di strategia”, ha ricordato a Italian.tech Raffaele Angius, giornalista freelance che per mesi ha seguito per Wired le vicende legate a Immuni. “Non sono state soddisfatte le richieste di indire una conferenza stampa né si è data risposta alla gran parte delle richieste di accesso agli atti che abbiamo formulato, sospese dal governo per i casi giudicati derogabili: ovviamente per loro qualsiasi richiesta era strumentalmente e arbitrariamente giudicata “derogabile”. È stato come la tela di Penelope, salvo che eravamo noi a dover smontare ogni notte quello che loro costruivano di giorno”. 

Secondo l’ex ministra Pisano, il suo dicastero ha sempre risposto alle richieste Foia, nel rispetto dei tempi previsti dalla legge.

A giugno Immuni era comunque pronta (Immagine 3), ben diversa dai progetti iniziali dei suoi sviluppatori, e – secondo alcuni critici – in un quadro differente da quello tratteggiato dalla task force nominata dal governo. Che cosa poteva andare storto?

Parte III. Perché Immuni ha fallito

Sgombriamo subito il campo dagli equivoci. Tutti gli esperti con cui ha parlato Italian.tech hanno confermato che Immuni è una app tecnicamente fatta molto bene, forse la migliore mai uscita dalla pubblica amministrazione. 

“Da un punto di vista tecnico la app Immuni rappresentava e rappresenta una best practice, un esempio eccellente di come un dipartimento di trasformazione digitale può creare tecnologia pubblica per supportare un meccanismo di protezione della salute, nel rispetto della privacy”, ci ha detto Ciro Cattuto. “Immuni è stata tra le prime app al mondo basate sul protocollo Google-Apple ed è stata sviluppata bene”, è anche il parere di Luca Ferretti. “Al di là delle polemiche, Immuni è una app eccellente”, ci ha detto Carlo Alberto Carnevale Maffè, che però, nelle settimane subito successive alla scelta dell’app, ha sempre sostenuto che la app sia in un certo senso incompleta, perché si sarebbe dovuto fare di più nell’avere la possibilità di raccogliere dati per ricostruire meglio i vari contatti sociali dei contagiati, rispettando comunque l’anonimato delle persone. “Il suo problema di fondo è che, appunto, è soltanto una app, non un sistema a layer tecnologici organizzativi adeguati, e ha troppi vincoli”, ha aggiunto Carnevale Maffè. “La app da sola era una strada sbagliata, ma dentro questa strada sbagliata Immuni era eccellente”.

Come è stato allora possibile che uno strumento con queste credenziali abbia registrato numeri così deludenti? La risposta è meno segreta di quanto possa sembrare. Vanno solo rimessi insieme i pezzi di un mosaico piuttosto chiaro e, a tratti, desolante. In breve: Immuni era ed è un mattoncino in un sistema più articolato – quello della sanità italiana – che per diversi motivi e per la responsabilità di diverse autorità, nazionali e locali, ha mostrato nei mesi scorsi tutti i suoi limiti e le sue debolezze. 

“Focalizzarsi solo sui dati di Immuni è come guardare la mela caduta per terra invece dell’albero, è guardare il dito del saggio che indica la Luna”, ha evidenziato Carnevale Maffè. “Immuni non ha funzionato non per l’app in sé, ma perché tutto il resto del sistema non funzionava. In Italia sono fondamentalmente mancate l’organizzazione e un buon utilizzo delle risorse”, ha aggiunto Ferretti. 

Cerchiamo di mettere in fila, una per una, le cause di questo fallimento generale.

La politicizzazione di Immuni

Uno dei fattori che ha in primo luogo compromesso la riuscita dell’esperimento Immuni è stato l’ecosistema informativo formatosi intorno all’applicazione. Come abbiamo visto, sulla nascita di Immuni c’è stata parecchia confusione e scarsa trasparenza iniziale. A un anno di distanza, visti i risultati ottenuti, possiamo dire che il dibattito pubblico intorno a Immuni ha creato un’aura di sfiducia verso il contact tracing digitale, invece che rafforzarne le potenzialità. 

“Immuni è stata parzialmente vittima di una serie di problemi di comunicazione e di un discorso pubblico attorno alla app che è stato eccessivamente conflittuale e molto confuso. E i cittadini, direi anche giustamente, a fronte di questa incertezza e conflittualità hanno reagito con diffidenza”, ha detto a Italian.tech Ciro Cattuto. “Io ho trovato particolarmente dannoso il modo in cui ai cittadini è stata presentata all’inizio una falsa dicotomia, tra protezione della salute e privacy personale, come se le due cose fossero in antitesi”.

Ricordiamo che per sviluppare la app sono serviti circa due mesi, eravamo a cavallo tra la fine del lockdown nazionale e le riaperture di maggio e giugno, un contesto che paradossalmente potrebbe non aver contribuito in positivo ad accettare l’arrivo di Immuni.

“La app è stata resa pubblica in un momento in cui il dibattito era così intossicato dalle discussioni sterili “privacy sì-privacy no, privacy contro salute”, e il cittadino era così misinformato rispetto a quelli che erano i benefici e i rischi, che l’adozione è stata quella che è stata”, ha aggiunto Cattuto. “L’app italiana è stata anche una delle prime a uscire e questo potrebbe essere stato un fattore sfortunato: all’epoca c’era la sensazione che quasi non ce ne fosse più bisogno, visto il calo continuo dei contagi e l’arrivo dell’estate”.

L’ex ministra Paola Pisano non usa mezzi termini nel commentare quanto accaduto ormai quasi un anno fa. “Ciò che non ho trovato corretto è stata la strumentalizzazione dell’applicazione come bandiera politica, così come la strumentalizzazione in generale di tutta l’epidemia di coronavirus e di chi parlava e parla ancora oggi senza il supporto delle evidenze dei dati”, ha detto l’ex ministra a Italian.tech. 

All’epoca diversi esponenti di primo piano dell’opposizione al governo Conte II – e come vedremo tra poco, anche alcuni governatori di regione – si erano schierati molto apertamente contro il contact tracing digitale. La leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni aveva per esempio suggerito più volte ai cittadini di non scaricare Immuni, dicendo che “i dati sulle condizioni sanitarie e gli spostamenti delle persone sono il business più appetibile del mondo per le case farmaceutiche”. Anche il segretario della Lega Matteo Salvini aveva ribadito, dopo il lancio dell’applicazione, che non l’avrebbe scaricata, sollevando dubbi infondati sulla gestione dei dati. In generale, quasi quotidianamente nel dibattito politico e non solo, sono circolate vere e proprie bufale sul funzionamento di Immuni, ma una volta che il discorso pubblico ha preso una certa piega, i risultati si sono iniziati a vedere, con numeri di download sotto le aspettative e con le regioni che andavano ognuna per la propria strada.

“All’inizio la app potrebbe essere stata venduta con speranze eccessive, con un approccio troppo tecno-soluzionista, non da parte degli sviluppatori, ma dei politici. Il problema è che in Italia Immuni è stata politicizzata, come tutta la gestione dell’epidemia”, ha sottolineato a Italian.tech Luca Ferretti. “Una volta che un intervento, come può essere il digital contact tracing, diventa qualcosa di politico, ha perso l’appoggio di metà della popolazione. Nel Regno Unito alcuni politici hanno criticato il governo non per avere sviluppato una app, come successo in Italia, ma al contrario per non averla fatta abbastanza bene. Stesso discorso vale per la Germania”.

Un’interpretazione simile è stata data anche da Bending Spoons. “Immuni avrebbe certamente potuto avere un impatto molto maggiore di quello che ha avuto. I problemi principali, a mio avviso, sono stati una comunicazione tardiva che ha concesso a polemiche e complottismi infondati di imperversare, e un’integrazione insufficiente col SSN”, ha detto a Italian.tech Luca Ferrari. “Tuttavia, l’app ha protetto tantissime persone, probabilmente salvando delle vite. Pertanto, sono felice che abbiamo donato 30.000 ore di lavoro dei nostri scienziati, ingegneri e designer per realizzare Immuni, e orgoglioso delle competenze e abnegazione dimostrate dal nostro team”.

La scarsa volontà politica

Quando si scava per ricostruire la storia di Immuni e si cerca di capire quali siano state le cause del suo fallimento, una delle sensazioni più ricorrenti è che non ci sia stata abbastanza volontà politica da parte del governo per far sì che il progetto funzionasse al meglio. E il disinteresse più marcato sembra provenire dal Ministero della Salute, quello che avrebbe più di tutti potuto trarre giovamento dal supporto di un contact tracing digitale efficace ed efficiente.

“C’è stato un sacco di focus sull’aspetto tecnico e tecnologico, di security e di privacy, perdendo di vista l’aspetto di salute pubblica. E questo è dovuto anche al fatto che in alcuni Paesi l’interesse da parte della salute pubblica è stato minore rispetto a quello di altre parti della società”, ha spiegato a Italian.tech Luca Ferretti. “Gli esperti di salute pubblica in Italia sono sempre rimasti ai margini della app e questo è avvenuto anche in altri Paesi. Non so quanto questo sia stato dovuto a una riluttanza verso gli strumenti tecnologici, perché c’era la prospettiva che una app non potesse funzionare bene quanto un umano. Per i medici a volte non è facile accettare che la tecnologia possa funzionare meglio di loro”.

Abbiamo passato in rassegna la comunicazione sui canali social ufficiali dell’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte e del ministro della Salute Roberto Speranza, che non hanno mai praticamente parlato di Immuni, nonostante l’applicazione rientrasse in uno dei pilastri messi in piedi per prepararsi all’eventuale arrivo di una seconda ondata (poi puntualmente arrivata, con il tracciamento manuale dei contatti saltato appena sono aumentati i contagi). 

Abbiamo anche letto Perché guariremo (Feltrinelli), il libro scritto dal ministro Speranza che sarebbe dovuto uscire a novembre scorso, ma la cui pubblicazione è stata bloccata con l’arrivo della seconda ondata nel nostro Paese. Nelle 240 pagine del libro Speranza cita Immuni una sola volta. Ecco il brano: “Nella strategia in cinque punti che presento per la fase 2, oltre a misure di precauzione, tracciamenti, ruolo dei territori e ospedali dedicati, c’è anche la app Immuni. Ci lavorano con entusiasmo Paola Pisano e il ministero dell’Innovazione, con l’aiuto dei nostri scienziati che spiegano a quali scopi serve e come dovrebbe funzionare. Nel corso del lavoro, però, il progetto perde un pezzo. In origine avrebbe dovuto camminare su due gambe: il contact tracing, per allertare chi avesse incrociato un positivo; e una seconda finalità ancora più rilevante per me, l’idea di dare a questa app tutte le potenzialità per far fare un passo in avanti al Paese sulla sanità digitale. La immaginavo come la chiave d’accesso a un concetto più moderno di assistenza domiciliare, a un legame più strutturato tra medico di medicina generale e paziente: una app capace di avvicinare il paziente al SSN. È l’aspetto della questione che mi affascina di più, rivolto al tempo lungo, alla crescita e non solo all’emergenza”.

Da queste parole, Speranza sembra tradire una certa delusione per come è stata concepita l’applicazione, cosa che poi potrebbe aver influito anche sull’approccio del suo ministero nel risolvere i problemi nati con il lancio di Immuni. Abbiamo più volte provato a contattare il Ministero della Salute per avere un commento a riguardo, ma ci è stato detto che per policy interna non vengono rilasciate interviste o dichiarazioni su Immuni, e che il ministero è ora molto impegnato sulla questione del certificato vaccinale. 

Le diffidenze del Ministero della Salute potrebbero essere nate proprio durante le settimane travagliate con cui ha preso corpo l’idea di introdurre il contact tracing digitale in Italia. “Nella parte di sviluppo della app tutti i soggetti coinvolti, tra cui il Ministero della Salute, hanno lavorato molto bene insieme”, ha detto a Italian.tech l’ex ministra Paola Pisano, che però ci ha sottolineato più volte come i problemi organizzativi fossero di competenza del dicastero guidato da Speranza, e non dal suo. “Il titolare dell’applicazione che noi abbiamo fatto e dei dati è il Ministero della Salute, che è anche il responsabile che deve adottare le istruzioni organizzative e operative, prime tra tutte quella di formare le strutture sanitarie che si occupano del tracciamento, e che avrebbero dovuto rispondere alle richieste dei cittadini. Noi come dipartimento della Trasformazione digitale non potevamo formare le Asl, non potevamo contattare le Asl, era ed è compito di un altro ministero, che si chiama Ministero della Salute”, ha ribadito Pisano. “Noi abbiamo fatto presente molte volte che bisognasse investire di più sull’organizzazione e sulla comunicazione una volta uscita la app, sia con le regioni che con il Ministero della Salute. Ovviamente ci sono le attenuanti del caso, perché è stato un ministero fortemente messo sotto pressione, e aveva molte cose a cui pensare”.

Nei mesi successivi al lancio di Immuni sono sì state introdotte alcune novità per far funzionare meglio la app (come il caricamento autonomo dei codici o la creazione di un call center), ma fino ad oggi hanno avuto un impatto trascurabile sui numeri.

Il caricamento dei codici e il “boicottaggio” delle regioni

Al di là della politicizzazione di Immuni e della scarsa volontà politica di far funzionare al meglio il sistema attorno all’applicazione, il problema principale del contact tracing digitale in Italia è stato il cosiddetto “caricamento dei codici”: ciò che “ha ucciso Immuni”, secondo Luca Ferretti dell’università di Oxford. Insieme a questo, c’è anche quello che in molti hanno definito un vero e proprio boicottaggio dell’app da parte di alcune regioni. “Le regioni hanno sabotato Immuni”, ha detto a Italian.tech Carnevale Maffè, senza giri di parole.

In breve: quando una persona che ha Immuni sullo smartphone scopre di essere positivo al coronavirus, può avvisare, in modo anonimo, i propri contatti del fatto che sono stati potenzialmente esposti a un positivo (da qui il nome Exposure notification del sistema Google-Apple, più preciso di contact tracing). Per farlo, deve comunicare un codice alfanumerico che trova nella app a un operatore sanitario, che – confermata la positività – gli sblocca il codice, permettendo alla persona positiva di inviare le notifiche ai suoi contatti stretti. Come è evidente, non si tratta di un procedimento esente da rischi, anzi: basta un intoppo (per esempio, non sapere dove cercare nella app o avere a che fare con un operatore impreparato) perché il corretto meccanismo di segnalazione si inceppi, rendendo di fatto inutile Immuni (Immagine 4).

Come abbiamo visto nella prima parte, in molte regioni l’applicazione è rimasta silente per lunghi periodi di tempo, con pochissime positività segnalate e, in rapporto, poche notifiche inviate. E qui l’indiziato numero uno è proprio il processo di sblocco e invio dei codici.

Lo scorso autunno diverse inchieste giornalistiche hanno infatti rilevato che parecchie regioni non si erano preparate a questo procedimento, con gli operatori sanitari che non erano pronti a gestire le richieste di chi voleva segnalare la propria positività tramite Immuni. Questi problemi sono emersi soltanto a ottobre scorso, con l’arrivo della seconda ondata, quando Immuni era però operativa ormai da più di quattro mesi. Il Veneto, per esempio, ha dichiarato soltanto a metà ottobre di avere reso pienamente operativo il sistema per lo sblocco dei codici, ma ritardi simili sono stati registrati in altre regioni. Abbiamo provato a parlare con i responsabili delle autorità locali sanitarie di regioni come il Veneto, ma il silenzio sul tema è stata la risposta più diffusa.

Non tutte le regioni però hanno avuto problemi con lo sblocco dei codici, come ha testimoniato a Italian.tech Alberto Fedele, direttore responsabile del Dipartimento di prevenzione della Asl di Lecce, in Puglia, e componente della giunta esecutiva della Società italiana di igiene, medicina preventiva e sanità pubblica (Siti).

“Nella nostra esperienza – ci ha detto Fedele – la app Immuni non è stata particolarmente utile come supporto alle nostre attività di contact tracing, nel senso che non sono stati moltissimi i soggetti che ci hanno detto di voler comunicare la loro positività tramite Immuni. Credo che nel complesso la app sia stata scarsamente utilizzata e qualora scaricata, non sia stata poi attivata, forse perché il singolo paziente positivo non avrebbe ottenuto grande beneficio, a differenza di chi riceveva la notifica”, ha dichiarato Fedele. “Non è che ci fossero procedure particolarmente laboriose da parte degli operatori sanitari. Può esserci stato, nei momenti culmine del contagio, una sorta di disattenzione nel non chiedere puntualmente a tutti i soggetti se avevano o meno la app Immuni, visto che l’attività di tracciamento era abbastanza frenetica. Da parte nostra l’attività era abbastanza residuale, bisognava soltanto farci dare un codice dai positivi con l’app Immuni e sbloccarglielo. Non credo fosse particolarmente complicato e laborioso. Le procedure non erano particolarmente complicate, bastava leggere le informative che erano state trasmesse per capire bene cosa ci fosse da fare”.

Le avvisaglie sulla scarsa collaborazione di alcune regioni c’erano già tutte a giugno, con il lancio di Immuni. Per esempio il 2 giugno il governatore del Veneto Luca Zaia (Lega) aveva elencato in una conferenza stampa quelli che secondo lui erano i limiti principali dell’applicazione, sottolineando che le regioni non avevano “contezza di quello che succede nei telefonini dei nostri cittadini”. 

“Non avendo noi il governo del processo” di tracciamento, aveva aggiunto Zaia, “risulta a noi impossibile gestirlo”. Una dichiarazione che ben riassume la volontà da parte delle regioni, costante durante tutta l’emergenza sanitaria, di avere più voce in capitolo nelle questioni sanitarie legate all’epidemia. “Non riteniamo opportuno incentivare in Piemonte l’uso della app Immuni”, aveva dichiarato il 5 giugno il responsabile della task force per la fase 2 in Piemonte Ferruccio Fazio, ex ministro della Salute dal 2009 al 2011. “Io ritengo che, da noi in Piemonte, Immuni non sia troppo utile visto che abbiamo messo in piedi un sistema di tracciamento dei contatti avanzato”. Dichiarazione poi smentita dai fatti, con il Piemonte tra le regioni più colpite dalla seconda ondata. 

Possiamo dire che la storia di Immuni è uno dei tanti esempi che ha palesato come la frammentazione della sanità regionale non abbia per nulla aiutato nella gestione dell’epidemia. Per di più, durante la scorsa estate diverse regioni hanno iniziato a promuovere app locali di tracciamento dei contatti, generando una gran confusione e attirando la censura del Garante della privacy, che il 10 agosto 2020 ha dovuto ribadire che tutte le applicazioni, tranne Immuni, violavano la normativa europea e nazionale in materia di protezione dei dati personali. 

Un altro elemento di salute pubblica su cui c’è stata parecchia confusione riguarda i comportamenti che un cittadino doveva adottare una volta ricevuta la notifica. In base a una circolare del 29 maggio del Ministero della Salute, chi riceveva la notifica di Immuni doveva “mettersi in contatto con il medico di medicina generale o pediatra di libera scelta spiegandogli di aver ricevuto una notifica di contatto stretto di Covid-19 da Immuni”, un’indicazione molto vaga (che vale ancora oggi). Il problema è che il medico sa solo che il soggetto ha avuto un potenziale contatto a rischio con un positivo e quindi l’indicazione più sensata da dare è sempre quella della quarantena, come ha ribadito più volte il Ministero della Salute. Ma l’assenza di incentivi a rispettare l’autoisolamento e le diverse direzioni intraprese dalle regioni (vedi il Veneto a ottobre) hanno sicuramente scoraggiato buona parte della popolazione a prendere l’iniziativa volontaria di isolarsi, una volta ricevuta la notifica sul telefono. A questo si aggiunga che i tamponi venivano fatti con molti giorni di ritardo dall’eventuale comparsa dei sintomi, rendendo poi inutili le segnalazioni per interrompere le catene di contagio.

Le autorità centrali hanno provato a metterci una pezza più volte, quando ormai la situazione era chiaramente sfuggita di mano. Anzi, le poche volte che il Ministero della Salute ha risposto alle domande dei giornalisti, ha ribadito di aver sin da subito fornito alle regioni i documenti necessari per la formazione degli operatori sanitari, rivelando però di essersi accorta in ritardo, soltanto con la seconda ondata alle porte, che molte Asl non sbloccavano i codici. Segno ancora una volta dello scarso interesse posto su questo ingranaggio della gestione dell’epidemia.

Il 18 ottobre, in un decreto del presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm) è stato introdotto l’obbligo per gli operatori sanitari di sbloccare i codici dei positivi tramite Immuni, imposizione da un lato arrivata parecchio in ritardo – sebbene una parte dedicata Immuni fosse presente nelle linee guida di chi doveva fare la ricerca dei contatti manuale – dall’altro lato quando ormai tutto il sistema di tracciamento nazionale non stava quasi più in piedi.

Con molto ritardo si è provato a correre ai ripari. Il 28 ottobre il decreto “Ristori” ha stanziato un milione di euro per il 2020 e tre milioni di euro per il 2021 per creare un call center nazionale e bypassare di fatto gli operatori sanitari delle singole regioni, per agevolare lo sblocco dei codici e a supportare gli utenti di Immuni. Dopo il via libera del Garante della privacy, a inizio 2021 il call center è stato reso attivo, ma solo per poche regioni, e come abbiamo scritto nella prima parte, non si sa quante chiamate riceva ogni giorno (il Ministero della Salute non ha saputo fornirci questi dati). Il 18 marzo invece – a quasi dieci mesi dalla nascita di Immuni – è stata introdotta la possibilità da parte dei cittadini di inserire in maniera autonoma i codici di sblocco per le notifiche, utilizzando un codice presente direttamente sui risultati dei test, ed evitare di contattare il call center o un operatore sanitario. Questa funzione è diventata operativa ad aprile scorso, non spostando per nulla le sorti dei numeri dell’applicazione, sempre meno scaricata e utilizzata dagli italiani.”Anche le due novità del call center e del caricamento in autonomia dei codici non sono state adeguatamente comunicate”, ha commentato a Italian.tech Ciro Cattuto.

Quanto hanno pesato i bug della app

Come abbiamo visto prima, gli esperti sono concordi nel sottolineare che Immuni sia stata sviluppata bene (la documentazione relativa alla app è consultabile in formato aperto su Github). Non sono però mancati alcuni disguidi tecnici, che nel complesso potrebbero aver in parte contribuito – molto poco, secondo gli esperti contattati da Italian.tech – a rendere meno efficace ed efficiente la applicazione. Quest’ultima, ricordiamo, poggia su un protocollo sviluppato da Apple e Google: spesso i problemi tecnici riscontrati non vanno dunque per forza attribuiti al singolo codice di Immuni, quanto all’integrazione tra il codice e gli altri protocolli.

A inizio novembre è per esempio stato risolto un bug che si verificava soprattutto sugli iPhone e che impediva agli utenti di Immuni di ricevere la notifica su un eventuale contatto a rischio. In pratica il contatto veniva notificato solo quando si entrava dentro alla app, e magari risaliva a parecchi giorni indietro nel tempo, rendendo inutile un eventuale isolamento. Un bug simile, sul sistema di controllo dei contatti a rischio, è avvenuto anche a settembre e ha colpito diversi smartphone che montavano il sistema operativo Android (anche quello è stato risolto nel giro di poco tempo). 

Chi lavora nel mondo delle applicazioni sa che problemi tecnici di questo tipo possono essere all’ordine del giorno e che dunque è necessario un costante lavoro di monitoraggio e di sviluppo migliorativo, cosa che su Immuni sembra essere stata fatta solo in parte.

“Dietro la app del Regno Unito ci sono molti ricercatori che si sono occupati e si occupano dello studio e dell’analisi dei dati della app per migliorarla costantemente. Su Immuni hanno al massimo corretto dei bug”, ha spiegato a Italian.tech Luca Ferretti. “Dopo il lancio, Immuni non è stata seguita più di tanto e ad oggi è sostanzialmente congelata nello stato in cui è stata lanciata. Si può dire che ora sia una app subottimale rispetto a quello che è successo in un anno nel mondo del contact tracing digitale”.

E qui si apre la domanda finale del nostro percorso: se Immuni abbia ancora senso di esistere, e con quale funzioni, oppure no.

Parte IV. Quale futuro per Immuni

“Ma resuscitate anche Immuni?”, ha chiesto (min. 1:55) il direttore di Italian.tech Riccardo Luna al ministro per l’Innovazione tecnologica e la Transizione digitale Vittorio Colao il 24 maggio, nel primo incontro per il lancio del nuovo sito. “Immuni non lo considero un fallimento: direi che ci abbiamo provato”, ha risposto Colao. Il digital contact tracing “in quasi tutti i Paesi non ha funzionato, perché la macchinosità di usarlo non ne ha fatto un successo, ma è comunque un buon risultato che tutti i Paesi si siano mossi, che tutti abbiano iniziato a sperimentare, anche per i cittadini e l’attitudine al digitale”. 

Al momento dunque il destino di Immuni sembra segnato: il governo vuole lasciarla attiva, ma di fatto snaturandone la sua funzione principale (quella di notificare le persone di un possibile contatto a rischio) per inserirci la possibilità di scaricare tramite essa il certificato vaccinale. Non si hanno ancora certezze sulle tempistiche di questa aggiunta e non mancano i dubbi relativi alla privacy. “Mettere un certificato nominativo dentro un’app che è stata specificamente progettata per essere anonima è veramente un controsenso”, ha per esempio commentato su Twitter il 24 maggio Stefano Zanero, professore al Politecnico di Milano ed esperto di cybersicurezza. Il Ministero per l’Innovazione tecnologica e la transizione digitale ha però chiarito in una nota che “su Immuni il certificato non arriverà con una notifica”, perché “è uno strumento attraverso il quale il cittadino avrà la possibilità di scaricare il certificato con una password usa e getta, senza essere identificato. Questa azione non avrà alcun tipo di ripercussione a livello di privacy. Lo strumento è e rimarrà assolutamente privacy preserving, ovvero le informazioni del cittadino non lasceranno il dispositivo mobile né verranno messe in relazione con le informazioni di contact tracing poiché il flusso è unidirezionale: dal database centrale (gestito da Sogei) che gestirà i certificati, verso il cellulare del cittadino stesso”.

La questione della gestione dei dati resta comunque un tema ancora aperto, Immuni e certificato vaccinale a parte. 

“La cosa positiva che estraggo dalla vicenda Immuni è che l’esempio della app ha costretto tutti i settori coinvolti – quello pubblico e privato, e la società civile – a prendere atto della complessità di che cosa significa riuscire a governare un ecosistema digitale, e quindi della necessità di un pensiero più sofisticato, che non significa per forza pensiero tecnico”, ha spiegato a Italian.tech Ciro Cattuto. “Così come la app non risolve il problema della Covid-19, così non sono i soli informatici che risolveranno i problemi di governance del nostro ecosistema digitale. Servono competenze più estese e più diverse, la società civile, il no-profit e il terzo settore devono avere un ruolo nell’influenzare la trasformazione digitale, che non può essere una cosa che ha a che fare soltanto con lo Stato o le Big Tech. Serve anche un ruolo per i cittadini”.

Intanto, nonostante il forte calo dei contagi registrato in Italia, l’attuale epidemia non è per nulla finita. Il nostro Paese è ancora lacunoso nella sorveglianza delle varianti – molto indietro rispetto ad altri Stati, come Regno Unito, Danimarca, Nuova Zelanda, per citarne alcuni – e, più in generale, sul tracciamento manuale dei contatti. 

Sulla base dei dati settimanali dei monitoraggi del Ministero della Salute e dell’Istituto superiore di sanità (Iss), abbiamo infatti analizzato qual è stato l’andamento del numero dei tracciatori messo a disposizione delle singole regioni dalla scorsa estate ad oggi. Il quadro è poco incoraggiante. In alcune aree il numero dei tracciatori, dopo essere leggermente salito nel corso della seconda ondata, è tornato a calare nelle ultime settimane, probabilmente dirottato ad altri compiti, come quello di somministrare i vaccini. Proprio quando il calo dei contagi permette di fare un tracciamento dei contatti più preciso e tempestivo, le autorità sembrano aver deciso di impegnarci meno risorse (Grafico 6).  

Grafico 6. Personale destinato al contact tracing – Fonte: Ministero della Salute e Iss

In questo scenario Immuni si trova, per così dire, in mezzo a un guado. “Da un lato, non si sa bene come fare funzionare Immuni se non per magia, anche se ora sappiamo che queste app possono avere un impatto e vale la pena usarle finché l’epidemia non se n’è andata. Dall’altro lato, a livello internazionale ci si sta chiedendo qual è il futuro di queste tecnologie”, ha detto a Italian.tech Luca Ferretti. “Spegnere Immuni causerebbe forse più domande di quante se ne fanno tenendola attiva. Rimettere in piedi l’applicazione richiederebbe un certo tipo di visione che in Italia manca”.

Anche la ex ministra Paola Pisano non pensa sia l’ora di staccare la spina. “Secondo me Immuni è stato comunque un successo. Credo che questa applicazione debba continuare a vivere e a essere sviluppata meglio”, ha detto a Italian.tech Pisano. “È vero che 19 mila segnalazioni di positività sono poche, ma se anche solo una di quelle segnalazioni avesse salvato una vita umana, io non lo considero “poco””.

Un’ipotesi potrebbe essere quella del rebranding di Immuni, come in un certo senso è stato fatto nel Regno Unito, dove una prima versione centralizzata della app di contact tracing è stata abbandonata l’estate scorsa, per poi essere rimessa in piedi in una veste decentralizzata e rilanciata a settembre. Ma, come abbiamo visto, questo sembra essere molto lontano dalle intenzioni del governo, che in ogni caso dovrebbe poi fare i conti con le posizioni delle singole regioni, mai del tutto convinte da Immuni. Il rischio quasi sicuro è ritrovarsi il déjà vu dell’anno scorso, con in più un aumento della sfiducia dei cittadini verso i risultati raccolti dell’applicazione. 

Al di là di che cosa sarà di Immuni, è certo però che di contact tracing digitale sentiremo ancora parlare in futuro. “Ci sono due orizzonti: questa epidemia e la prossima. Perché noi stiamo già iniziando a pensare alla prossima”, ha concluso Ferretti. “Per questa avevamo la scusa di non essere ancora pronti, per la prossima non ci sono scuse: se non arriviamo preparati, è solo colpa nostra”.

Fonte www.repubblica.it