Pandemia e Big Data, ecco cosa abbiamo imparato (e cosa dobbiamo correggere nel futuro)

  • di Chiara Stella Scarano da Sanità & Informazione 11 giugno 2021 – “La necessità di un maggiore coordinamento nella gestione dei flussi di informazione, condivisione dei dati bio-clinici e l’opportunità di potenziare la digitalizzazione al centro del webinar organizzato da Big Data in Health Society con il coordinamento di IGOR Comunicazione. Verso il Big Data in Health International Congress 2021 ad ottobre”.

La pandemia di Sars-Cov-2 è stata la prima nell’era della digitalizzazione e dei Big Data. Come ha funzionato, quanto è servita e quanto servirà ancora, se implementata o ottimizzata, la raccolta dei dati, anche dal punto di vista della genomica? E quale sarà il futuro dell’epidemiologia, e la governance nella gestione di eventuali future pandemie, anche alla luce di un altro fenomeno che ha caratterizzato l’informazione in questo frangente, la cosiddetta “infodemia”?

A questi interrogativi si è cercato di dare risposte durante il webinar “Big Data 4 Infodemics & Epidemics” tenutosi ieri e organizzato da Big Data in Health, con ospiti di eccezione quali il fisico ed epidemiologo Alessandro Vespignani, l’assessore alla Sanità della Regione Puglia PierLuigi Lopalco, l’informatico e scrittore Walter Quattrociocchi, la biologa molecolare esperta in genomica Maria Luisa Chiusano, e la Health Market Director di Microsoft Veronica Jagher. Ognuno di loro ha contribuito, mettendo in campo le esperienze legate agli ultimi 15 mesi relative al proprio settore, a fornire spunti di riflessione e risposte sui temi in oggetto. Ad emergere, la necessità di implementare il coordinamento e la condivisione di dati.

I dati nelle previsioni. Utili se ben interpretati, altrimenti si prestano a storture

«Per la prima volta nella storia – afferma Vespignani – è stato fatto un enorme uso di dati e modelli come riferimento nelle previsioni sull’andamento della pandemia. Intanto, il lavoro dell’epidemiologia computazionale è stato eccellente, ci ha dato la possibilità di scorgere la pandemia quando questa era ancora ufficialmente un’epidemia, ci ha reso edotti sul reale numero iniziale di casi in Cina (migliaia) quando erano ufficialmente solo poche decine».

«Il problema con le previsioni basate sui dati è che non si possono vedere o toccare con mano, motivo per cui all’inizio le previsioni fatte tramite modelli numerici non sono state particolarmente ascoltate. Con l’avanzare della pandemia invece il registro è cambiato – osserva lo scienziato – e i modelli numerici sono stati presi fortemente in considerazione, con risultati però non sempre ottimali: i singoli si sbilanciavano in previsioni, senza tener conto del fatto che il dato numerico va analizzato e contestualizzato, e che c’è una grande differenza tra previsione e scenario».

Capire come evolve il virus grazie ai dati genomici, uno strumento fondamentale

«L’utilizzo della genomica – interviene Chiusano – ha dato una sferzata enorme alla gestione del fenomeno pandemico, grazie al sequenziamento delle varianti virali e all’estrema accessibilità e condivisione dei dati relativi a queste. Eppure, nonostante siamo in possesso di una grandissima quantità di dati su quello che riguarda la letalità, la contagiosità, i sintomi, a scarseggiare sono i dati relativi all’ambiente, che interagisce e influisce pesantemente sul virus e le sue mutazioni. Nel futuro – osserva la biologa – credo che si dovrà lavorare maggiormente sull’integrazione di dati multidisciplinari, e creare un maggior coordinamento a livello centrale (europeo) sull’interpretazione e la condivisione di questi dati».

Potenziare la digitalizzazione per sistemi sanitari più “intelligenti”

«Sin dall’inizio della pandemia abbiamo cercato e messo in campo soluzioni digitali – spiega Jagher – che supportassero tutti i nuovi modelli di riferimento per ogni aspetto della vita quotidiana, da quello sanitario a quello sociale. Abbiamo approntato piattaforme virtuali per le visite in ospedale, per raccogliere i dati dei pazienti e snellire il lavoro del personale sanitario, così come per il monitoraggio da remoto dei pazienti a domicilio. Abbiamo creato i chatbot (software progettati per simulare la conversazione con un essere umano, n.d.r.) dal momento che, soprattutto allo scoppio della pandemia, i centralini delle istituzioni sanitarie letteralmente scoppiavano, subissati dalla quantità di telefonate di cittadini giustamente in cerca di risposte di ogni genere. Credo che valorizzando i processi di digitalizzazione – conclude la direttrice del settore sanità Microsoft – e implementando il patrimonio informativo avremo sistemi sanitari molto più intelligenti e performanti, con benefici su tutta la filiera, dal cittadino al personale sanitario fino ai sistemi ospedalieri».

Persone dietro le tecnologie. Non trascuriamo la formazione

«Credo che la digitalizzazione debba essere evidence based – dichiara Lopalco -. Se non abbiamo la cultura per applicare questo principio, dobbiamo creare quella cultura. Sicuramente un campo su cui dobbiamo impegnarci di più è la formazione continua. La pandemia ha messo in evidenza una criticità nella gestione dei flussi dei dati, con una non sempre felice integrazione dei vari sistemi e uno scarso coordinamento, dovuto anche al fatto di avere in Italia 21 sistemi sanitari diversi. Per contro – aggiunge Lopalco – l’esperienza pandemica ha comportato un rafforzamento nelle infrastrutture digitali. Tuttavia un sistema di sorveglianza epidemiologica ha bisogno di risorse umane dietro le tecnologie, almeno finché non arriviamo a livelli di intelligenza artificiale talmente elevati da essere in grado di inserire i dati e curarli. Fino ad allora, a questo compito saranno deputate le persone, non dimentichiamolo».

Come gestire i dati nel veicolare l’informazione, un fattore essenziale

«Il modo in cui viene recepita l’informazione influisce sull’adozione delle politiche, e viceversa – commenta Quattrociocchi -. Durante la pandemia abbiamo assistito a un’infodemia, una esplosione di informazioni sulla gestione dell’emergenza. E l’informazione è stata veicolata soprattutto dai social, che però, ricordiamo, non nascono come strumenti di informazione ma di intrattenimento. Questo – conclude – ha creato una sorta di corto circuito, con vuoti comunicativi soprattutto sulla divulgazione di contenuti complessi come quelli scientifici, dando luogo a fenomeni manipolatori e alle pericolose fake news».