- di Angelo Facchini, Valentina Pieroni, Massimo Riccaboni IMT Lucca, da Scienzainrete.it – “Non sono ancora disponibili indicazioni chiare sulla priorità di accesso alla vaccinazione per le persone in buona salute con meno di 60 anni che non appartengono alle altre categorie prioritarie. Tali soggetti, seppur sostanzialmente equivalenti fra loro dal punto di vista del rischio sanitario, rappresentano una quota consistente della popolazione, di vitale importanza per la ripartenza dell’economia. Su questo si concentra un recente studio, in preprint, nel quale viene individuato un criterio di natura socio-economica per stabilire un ordine di priorità. Gli autori ce lo spiegano in questo articolo e lo stesso Facchini ha partecipato il 13 aprile alla conferenza online “Lockdown e vaccini. Il giusto equilibrio per salvare salute e PIL” organizzata da Big Data in Health Society con Antonio Scala e Guido Crosetto. Ha moderato Emanuele Perugini, IGOR“.
Nonostante il recente progresso nella definizione di criteri omogenei su scala nazionale per la campagna vaccinale anti Covid-19, non disponiamo ancora di indicazioni chiare in merito alle priorità di accesso alla vaccinazione da parte della forza lavoro (popolazione attiva in buona salute).
Le indicazioni attualmente disponibili riguardano solo la categoria dei lavoratori essenziali, la cui composizione è mutata nel tempo, dai primi DPCM1 alle liste degli eleggibili alla vaccinazione predisposte dalle regioni. Le attuali liste, che hanno suscitato numerose critiche, non includono molte categorie di lavoratori del settore privato che svolgono attività essenziali in presenza, identificate nella prima fase.
Restano da definire i criteri per stabilire in che ordine dovranno essere vaccinate le persone in buona salute con meno di 60 anni che non appartengono alle altre categorie prioritarie secondo il piano strategico per la vaccinazione. Tali soggetti, infatti, seppur sostanzialmente equivalenti fra loro dal punto di vista del rischio sanitario, rappresentano una quota consistente della popolazione, di vitale importanza per la ripartenza dell’economia.
È questo l’oggetto di un nostro recente studio, in cui abbiamo individuato un criterio di natura socio-economica per stabilire un ordine di priorità nella popolazione attiva e in buona salute. Prima di discutere i risultati del nostro lavoro, vale la pena guardare come i diversi paesi europei hanno affrontato la questione.
Cosa succede in Europa?
Anche altri paesi europei stanno procedendo secondo priorità analoghe a quelle definite dal piano vaccinale italiano. Per esempio, la Germania ha identificato sei categorie di priorità: le prime cinque categorie hanno un’urgenza diversa a seconda dell’età e del rischio sanitario e coprono circa 30 milioni di persone, mentre la sesta categoria include la restante popolazione, coprendo circa 45 milioni di persone. Austria e Svizzera hanno adottato regole simili, con un piano strategico valido fino al secondo trimestre del 2021. In Francia le due fasi finali della vaccinazione coinvolgono la popolazione più giovane (oltre i 18 anni) senza comorbidità, ma i dettagli sui criteri di assegnazione all’interno di questa categoria non sono ancora stati resi noti.
Il Regno Unito sta iniziando la copertura dell’intera popolazione dopo aver vaccinato i gruppi prioritari: coloro che sono a maggior rischio di esposizione e coloro che forniscono servizi pubblici essenziali. L’Irlanda ha ipotizzato che, nella popolazione a basso rischio, la priorità sia data al gruppo di età 18-34 perché comprende persone che hanno più contatti sociali. Tra i gruppi prioritari, l’Irlanda identifica anche i lavoratori impiegati in settori ad alto rischio di esposizione, superando il criterio dell’essenzialità per includere il principio di rischiosità in termini di esposizione e diffusione del contagio.
Infine, il piano spagnolo definisce una serie di categorie della popolazione e fornisce criteri per valutare la maggiore o minore priorità. Tra le categorie di priorità medio-alta ci sono i lavoratori di settori essenziali (per garantire il normale funzionamento della società) e le persone vulnerabili a causa delle loro condizioni socioeconomiche (per esempio, coloro che hanno un lavoro precario, le persone nella fascia di reddito più bassa, ecc).
Una strategia per i soggetti non fragili
Molti posti di lavoro sono attualmente a rischio a causa delle politiche adottate per contenere il rischio Covid-19. Per far fronte alle conseguenze negative del lockdown, l’Unione Europea ha immediatamente approntato il fondo dedicato SURE, ma le implicazioni socio-economiche della campagna vaccinale non sono state recepite nei criteri di priorità per l’accesso alla vaccinazione.
Per questa ragione la nostra proposta è che, una volta terminata la vaccinazione dei soggetti deboli, sia data priorità ai lavoratori essenziali e agli altri lavoratori del comparto privato in relazione al rischio di perdere il posto di lavoro.
Per giungere a questa proposta abbiamo studiato l’impatto delle misure di restrizione della mobilità individuale sia dal punto di vista economico sia dal punto di vista epidemiologico. Come misura della diffusione del virus abbiamo scelto la mortalità in eccesso osservata, mentre l’impatto economico sul sistema produttivo italiano e il numero di posti di lavoro a rischio per via della pandemia sono stati stimati considerando le ore di cassa integrazione autorizzate.
Sul piano epidemiologico si conferma quanto già osservato in precedenza in Italia e all’estero: la contrazione di mobilità registrata con i dati del programma Facebook Data for Good nel periodo tra marzo e ottobre 2020 ha causato una riduzione della mortalità in eccesso riconducibile all’andamento dell’epidemia. In particolare, a una riduzione dell’1% degli spostamenti all’interno di una provincia segue una riduzione media della mortalità in eccesso dello 0,5%. Gli effetti più significativi si sono visti nelle province settentrionali, quelle più interessate dal contagio. Le misure restrittive introdotte e i comportamenti sociali più prudenti adottati dalla popolazione si sono pertanto rilevati efficaci nel contenere la diffusione del virus, arginando alcune delle conseguenze più gravi della pandemia.
Se le politiche di distanziamento sociale e le limitazioni alla mobilità hanno ottenuto gli effetti previsti nel contenere i contagi, esse hanno comportato costi ingenti sul piano socioeconomico.
L’analisi empirica evidenzia, per la prima volta, l’esistenza di una relazione statisticamente significativa tra la variazione mensile di mobilità registrata nel periodo marzo-agosto 2020 a livello provinciale e le ore di cassa integrazione autorizzate nello stesso periodo. L’analisi causale, condotta utilizzando diverse variabili strumentali, mostra che a una contrazione della mobilità dell’1% rispetto al periodo precedente alla pandemia (gennaio-febbraio 2020) segue un incremento medio del 5% delle ore di cassa integrazione. Questo effetto di incremento dei cassintegrati a causa delle limitazioni alla mobilità è più intenso durante il primo lockdown nazionale (marzo-maggio), e si attenua progressivamente con il graduale alleggerimento delle restrizioni da giugno in poi.
Il rischio disoccupazione e la campagna vaccinale
Se la mortalità in eccesso è rimasta a lungo un fenomeno limitato al Nord Italia, le conseguenze economiche negative si sono diffuse da subito su tutto il territorio nazionale. Come ipotizzabile, un maggior crollo della mobilità si riscontra nelle province in cui è più contenuta la forza lavoro impiegata nei settori cosiddetti “essenziali”, di cui cioè non è stata disposta la chiusura nelle prime fasi di diffusione del virus1.
La progressiva diffusione dei contagi su scala nazionale e il graduale inasprimento delle misure di contenimento varate dal Governo hanno indotto un crollo della mobilità che in parte sembra dovuto a una riduzione degli spostamenti da e per i luoghi di lavoro dovuti alla sospensione temporanea delle attività lavorative con ricorso alla cassa integrazione.
Le ore di cassa integrazione sono cresciute di quattro ordini di grandezza tra aprile e maggio, passando da circa 10-20 milioni a 10-20 miliardi di ore. Inoltre, mentre osserviamo un calo della mortalità dopo la prima ondata, le ore di cassa integrazione si sono mantenute su valori elevati, stabilizzandosi intorno al miliardo di ore, cioè tre ordini di grandezza in più rispetto al periodo pre-pandemia.
La figura qui sotto mostra che la relazione tra contrazione della mobilità (rappresentata attraverso la riduzione dell’area delle province) e aumento della cassa integrazione (rappresentata attraverso i diversi colori) è significativa, anche se con intensità differenti, in tutto il periodo e nella maggior parte delle province.
Sulla base di questi risultati, la nostra proposta per la fase avanzata della campagna vaccinale, quando i soggetti fragili saranno stati vaccinati, è quella di dare priorità ai lavoratori essenziali e a quelli che sono più a rischio di perdere il lavoro, tra cui in particolare i cassintegrati.
Abbiamo identificato le province in cui la contrazione della mobilità ha prodotto più cassa integrazione. Su questa base, nello studio confrontiamo un criterio di distribuzione dei vaccini tra le province che tenga conto del rischio disoccupazione indotto dal lockdown con una ripartizione basata esclusivamente sulla popolazione lavorativa residente. Confrontando queste due distribuzioni, abbiamo indicato come modificare la distribuzione dei vaccini per tenere conto delle pesanti conseguenze delle politiche di restrizione della mobilità sul piano occupazionale. Le principali variazioni sono mostrate nella mappa seguente (alle province di colore più scuro dovrebbero essere allocati più vaccini rispetto a quelli previsti sulla base della popolazione residente).
La strategia proposta si basa sul principio seguente: fra i lavoratori non essenziali dovrebbero avere priorità i soggetti che hanno un maggior rischio di disoccupazione. Per realizzare questo principio potrebbero essere riallocate dosi alle province in cui si è osservato un maggior incremento delle ore di cassa integrazione come conseguenza delle politiche di contenimento della pandemia. In tal modo aumenterebbe la probabilità che i lavoratori a rischio disoccupazione possano tornare a lavorare in sicurezza, limitandone i periodi di assenza dal lavoro che potrebbero preludere all’uscita dal mercato del lavoro.
I benefici attesi di questa politica sono favorevoli sia per contenere le conseguenze socio-economiche della crisi sanitaria, sia per liberare risorse pubbliche da destinare a chi perderà il proprio posto di lavoro. Ricordiamo che, secondo la Commissione Europea, il governo italiano ha già impegnato nel 2020 circa 19 miliardi di euro per coprire gli schemi di integrazione salariale e che tali misure sono state prorogate di recente.
L’Italia nel panorama internazionale
I risultati dello studio sono rilevanti per tutti i paesi che hanno adottato misure di protezione del lavoro. In molti paesi europei sono stati introdotti blocchi del licenziamento a breve termine e strumenti straordinari di integrazione salariale per sostenere le imprese e i lavoratori colpiti dalla crisi.
Gli stati membri dell’Unione Europea sono autorizzati a chiedere fondi europei per coprire queste misure di protezione dell’occupazione: il sostegno finanziario sotto forma di prestiti concessi a condizioni favorevoli è fornito nell’ambito dello strumento SURE. L’Italia è tra gli stati membri che beneficeranno maggiormente dell’assegnazione delle risorse fornite nell’ambito di SURE: riceveremo gradualmente circa 27,4 miliardi dell’importo totale di 90,3 miliardi di euro approvato dal Consiglio Europeo. Gli altri stati membri autorizzati a ricevere un sostegno finanziario nell’ambito del SURE sono: Belgio (7,8 miliardi), Spagna (21,3 miliardi), Polonia (11,2 miliardi), Portogallo (5,9 miliardi), Grecia (2,7 miliardi), e Romania (4,1 miliardi).