- di Giuseppe Salvaggiulo, La Stampa 6 dicembre 2020 – “Servirebbero i cosiddetti “dati elementari”, disaggregati, per ogni contagiato: età, genere, localizzazione, patologie pregresse, professione, data di primi sintomi, data di tampone, data di ricovero, evoluzione clinica, data di guarigione o morte. Un esempio di dato aggregato riguarda le terapie intensive. Il bollettino giornaliero ci dice il saldo di posti letto occupati, ma non quanti pazienti entrano e quanti escono, e perché. Il primo dato ci servirebbe per capire se i provvedimenti restrittivi funzionano, perché sappiamo che in media si va in terapia intensiva a dieci giorni dal contagio. I ricoveri possono diminuire perché si cura meglio sul territorio o perché non ci sono più letti disponibili e si lasciano i pazienti a casa (come a marzo); le uscite possono aumentare perché le terapie sono più efficaci o perché il sistema ospedaliero collassa, moltiplicando i decessi. Paradossalmente, più pazienti muoiono più i letti si svuotano e il saldo giornaliero sulle terapie intensive diventa positivo“
Che cosa non funziona nei dati che ci stanno cambiando la vita. Dai dubbi sull’indice Rt ai posti letto negli ospedali. Dagli algoritmi sconosciuti ai trucchi per uscire dalla zona rossa. Tante cifre, ogni giorno. Ma sono quelle giuste?
“Crescono i contagi, record di tamponi”. “Meno positivi, ma calano i tamponi”. “In calo i ricoveri ma sale il rapporto positivi/tamponi”. “La curva flette ma aumentano i morti”. E così via, ogni giorno da marzo. Numeri, grafici, percentuali, picchi e plateau ormai entrati nel nostro lessico famigliare, su cui si basa la strategia di sorveglianza e contenimento della pandemia. Gilberto Corbellini, docente di storia della medicina alla Sapienza, ha parlato di “entropia informativa”. La Società di statistica medica ed epidemiologia clinica di “infodemia”.
Da questi numeri dipendono il nostro umore e le regole decise a livello nazionale e locale. A questi numeri abbiamo affidato le nostre vite, da ogni punto di vista: salute, lavoro, famiglia, rapporti sociali, libertà. Abbiamo fatto bene? Per capirlo, nell’ultimo mese abbiamo consultato documenti, interpellato esperti e partecipato a webinar. Cercando di capire se e quanto utili sono i dati; se sono credibili; se sono comunicati in modo trasparente e completo.
Ogni giorno, intorno alle 18, decine di milioni di italiani consultano il bollettino della protezione civile. Una tabella con le regioni sull’asse verticale e i numeri su quello orizzontale. Durante il lockdown, venivano illustrati dal capo della protezione civile, Angelo Borrelli. Ora vengono diffusi via internet e rilanciati dalle televisioni.
Secondo Giorgio Alleva e Alberto Zuliani, docenti universitari ed ex presidenti dell’Istat, l’istituto nazionale di statistica, “sono informazioni di tipo amministrativo per le quali non sono definite, o almeno conosciute compiutamente, le modalità di raccolta e di elaborazione”.
Nel dettaglio, si tratta fondamentalmente di quattro dati.
Il primo dato è il numero di tamponi effettuati: a febbraio si facevano solo a chi era stato in Cina o aveva avuto contatti con persone tornate dalla Cina; all’inizio di marzo essenzialmente ai sintomatici (febbre, tosse, mal di gola) a fini diagnostici; nella seconda metà di marzo e ad aprile per lo più ai pazienti ricoverati in ospedale; fino a ottobre soprattutto alle persone che avevano avuto contatti con positivi, a fini di tracciamento; da metà novembre non più agli asintomatici. Inoltre ogni Regione, ogni Asl, ogni medico di famiglia può decidere in autonomia. Tra il 20 e il 22 novembre, per esempio, la provincia di Bolzano ha effettuato uno screening di massa con test rapidi su 343.227 persone, il 61,9% della popolazione locale. Talvolta ci sono linee guida, ma non cogenti. Generalmente sulle disposizioni generali prevalgono le esigenze operative: capacità di effettuare e processare tamponi, disponibilità di personale, dotazione di reagenti, efficienza dei dipartimenti sanitari, difficoltà amministrative nella gestione delle richieste.
Il secondo dato è il numero di soggetti risultati positivi al test. Talvolta però si tratta di secondi o terzi tamponi. La prassi, almeno fino a qualche settimana fa, era di fare un tampone “di uscita” dopo 14 giorni per certificare la guarigione e la fine dell’isolamento domiciliare. Per non dire delle categorie (medici, sportivi) che si sottopongono a tamponi periodici. L’ospedale Sacco di Milano, a ottobre, aveva stimato un 15% di casi di positività riferiti a persone che facevano tamponi di controllo. Parlando in Senato il 10 novembre, Nino Cartabellotta, presidente della fondazione indipendente Gimbe, ha detto che “nelle ultime settimane il 40% dei tamponi sono di conferma”.
Inoltre gli esiti dei tamponi sono legati ai gruppi selezionati, cambiati nel corso dei mesi. Per esempio si decide di testare gli anziani nelle Rsa (residenze sanitarie) oppure no? Si testano a tappeto i medici di base oppure no? Cosicché confronti corretti del tasso di positività nel tempo e nello spazio risultano impossibili.
Il terzo dato è il numero di ricoverati, divisi tra area medica e terapia intensiva.
Il quarto dato è il numero di morti.
Secondo Alleva e Zuliani, i dati giornalieri servono a poco. Sarebbe meglio, almeno per tamponi e positivi, riferirsi a intervalli di tempo più lunghi, “eliminando fluttuazioni che danno adito a letture di accelerazioni inattese o di rallentamenti agognati dei contagi”.
C’è un altro problema. Tutti questi dati sono aggregati e “non più sufficienti per rendere trasparente il meccanismo decisionale del governo e la comprensione scientifica dell’evoluzione della pandemia”, scrive la Società italiana di statistica in una petizione al governo.
Secondo Alfio Quarteroni, matematico del Politecnico di Milano, più i dati sono aggregati meno sono utili “per stabilire relazioni causali e prendere decisioni razionali”. Per esempio sulla scuola, chiusa o aperta senza sapere “quanti sono i contagiati e quale il tasso di contagiosità”.
Piuttosto servirebbero i cosiddetti “dati elementari”, disaggregati, per ogni contagiato: età, genere, localizzazione, patologie pregresse, professione, data di primi sintomi, data di tampone, data di ricovero, evoluzione clinica, data di guarigione o morte.
Un esempio di dato aggregato riguarda le terapie intensive. Il bollettino giornaliero ci dice il saldo di posti letto occupati, ma non quanti pazienti entrano e quanti escono, e perché. Il primo dato ci servirebbe per capire se i provvedimenti restrittivi funzionano, perché sappiamo che in media si va in terapia intensiva a dieci giorni dal contagio. I ricoveri possono diminuire perché si cura meglio sul territorio o perché non ci sono più letti disponibili e si lasciano i pazienti a casa (come a marzo); le uscite possono aumentare perché le terapie sono più efficaci o perché il sistema ospedaliero collassa, moltiplicando i decessi.
Paradossalmente, più pazienti muoiono più i letti si svuotano e il saldo giornaliero sulle terapie intensive diventa positivo.
Dal 30 aprile il monitoraggio dell’epidemia è affidato a 21 indicatori concordati da governo e Regioni, sulla cui base da novembre le regioni sono periodicamente classificate con tre colori – giallo, arancione, rosso – corrispondenti ad altrettanti scenari di rischio, con crescenti misure restrittive. Gli indicatori (tra cui contagi, focolai, ricoveri, posti letto, tamponi, terapie intensive e l’ormai famoso Rt, l’indice di trasmissione) servono a capire come e quanto circola il virus, come le Regioni riescono a diagnosticare e tracciare i casi, qual è la tenuta degli ospedali.
Il governo non possiede numeri propri. Le Regioni censiscono i dati e li condividono con la cabina di regia, un organo misto con rappresentanti del ministero e delle Regioni. La cabina di regia li elabora sulla base di un algoritmo previsto dal decreto di fine aprile. Quindi li rimanda alle Regioni per un’ulteriore validazione. Poi l’Istituto superiore di sanità li elabora classificando le regioni su base cromatica e stabilendo il “livello di rischio e resilienza”.
Il 4 novembre il presidente del Consiglio Giuseppe Conte definisce il nuovo meccanismo “la bussola che ci indica dove intervenire”. Nei giorni successivi, non appena applicato, le Regioni lo contestano. Il 9 novembre gli esperti della cabina di regia ammettono la necessità di una “verifica”. Lo stesso giorno il comitato tecnico-scientifico, l’organo di consulenza del governo sull’epidemia, parla di “criticità” e chiede di “rivedere e riconsiderare alla luce dell’evoluzione epidemica attuale la valenza degli originali 21 indicatori”, focalizzandosi su posti letto disponibili, terapie intensive e indice di trasmissione Rt ed eliminando, per esempio, la situazione nelle residenze per anziani. Il 14 novembre Fabio Ciciliano, dirigente medico della polizia e membro del comitato tecnico-scientifico, dichiara: “La complessità dei dati che le Regioni trasmettono in tempi diversi rende articolata l’analisi dei parametri di monitoraggio. Alcuni dei 21 indicatori, concepiti in aprile in un periodo completamente diverso, rischiano di rallentare il processo di analisi e le conseguenti azioni da mettere in atto potrebbero risultare tardive”. Nei giorni successivi Regioni chiedono al governo di ridurre gli indicatori da 21 a 5. Il governo si rifiuta.
Sin dai primi giorni di applicazione del meccanismo, è emersa la difficoltà di ottenere dati aggiornati, attendibili e confrontabili.
Non esiste una piattaforma comune di raccolta e gestione dei dati. Ogni Regione utilizza formati e modalità differenti. A marzo si utilizzava il telefono, ora si è passati a fax, mail e fogli excel per passarsi i dati, che prima di essere inviati a Roma devono essere convogliati da medici di base, Asl e laboratori sia pubblici che privati. Quindi a Roma bisogna riversare tutti i numeri su un software unico. Il che spiega come mai, nei bollettini della protezione civile e nei report dell’Istituto superiore di sanità, talvolta manchino i dati di una regione o di alcune province. Oppure ci sono, ma non coincidenti.
La prima suddivisione cromatica dell’Italia (regioni gialle, arancioni e rosse) è stata decisa il 3 novembre ed è entrata in vigore il 6 novembre sulla base dei dati relativi alla settimana 18-25 ottobre. Vecchi di almeno dodici giorni, nonché indifferenti agli effetti dei tre precedenti Dpcm. Quello del 13 ottobre, sulle mascherine obbligatorie; quello del 20 ottobre, su feste e movida; quello del 24 ottobre, su bar e ristoranti, piscine, palestre, cinema, teatri. Provvedimenti di cui non conosceremo mai l’effettiva utilità, perché prima che dispiegassero i loro effetti (secondo gli epidemiologi, almeno due settimane) sono stati superati dalle nuove regole, con la suddivisione cromatica delle regioni, stabilite su dati precedenti agli stessi Dpcm.
Gli esperti hanno sottolineato subito le incongruenze del sistema a tre colori.
Alcuni parametri sono apparsi sovrabbondanti e “molti sono avvolti nella nebbia più fitta. L’aspetto più sconcertante è che non conosciamo il peso di ciascun parametro rispetto al totale”, dice Francesco Broccolo, ricercatore di microbiologia all’università di Milano Bicocca. Il quale definisce “incomprensibile” il fatto che la Calabria sia zona rossa e la Campania gialla, dal momento che la saturazione delle terapie intensive è più drammatica in Campania (35% contro 30%). E nell’ultima settimana (26 ottobre-1 novembre) l’Rt medio era analogo. Ma la classificazione è basata sui dati della settimana precedente (19-25 ottobre), in cui l’Rt della Campania era a 1,29 e considerato “in diminuzione”, anche se già si conoscevano i dati della settimana successiva, in cui era risalito.
Un sistema basato su 21 parametri funziona se il flusso di dati è tempestivo e qualitativamente omogeneo. Mentre divide le regioni secondo la scala cromatica di rischio, lo stesso Istituto superiore di sanità ne dubita, certificando che 5 Regioni su 20 non rispettano le regole. Dei dati della Campania, consegnati in ritardo, scrive che “non sono affidabili, perché è stato rilevato un forte ritardo di notifica dei casi che potrebbe rendere la valutazione meno efficace”. Il ministero della Salute manda gli ispettori in Campania, ma dell’esito degli accertamenti non ha dato notizia.
“Falsificare i dati sarebbe un reato grave”, dice il ministro della Salute Roberto Speranza. Almeno quattro Procure aprono inchieste sulla correttezza dei dati regionali. “Incompletezza dei dati” anche in Provincia di Bolzano (che poi si autoproclamerà zona rossa) e in Liguria, dove il governatore Giovani Toti non esclude “un errore materiale”. In Veneto i principali parametri di rischio sono considerati “non valutabili” e “si rischia di sottostimare l’indice Rt per carenza di dati”, addebitata dai tecnici della Regione a “un blackout telematico di tre giorni” e dal governatore Luca Zaia a “un inghippo informatico, è sempre un casino con questi computer”.
Nonostante ciò vanno tutte in fascia gialla, mentre la Valle d’Aosta in quella rossa perché per tre settimane non ha inviato dati completi.
“Anche a noi ha lasciato un po’ perplessi la classificazione di alcune regioni”, scrive il collettivo di ricercatori StatGroup-19, nato spontaneamente per studiare l’epidemia.
Sulle terapie intensive non esiste un protocollo comune, per cui la Calabria può scorporare i pazienti “ventilati” ma non “intubati” dal calcolo dei posti occupati in terapia intensiva, abbassando il dato da 14 a 2. “Abbiamo forti dubbi quando vediamo inseriti posti letto che vorrebbero rassomigliare a una terapia intensiva ma sono diversi gradini sotto. Mettere un ventilatore e un monitor accanto a un letto non basta”, dichiara il 23 novembre Alessandro Vergallo, presidente nazionale Aaroi-Emac, il sindacato dei medici di anestesia e rianimazione.
In diverse regioni ci sono polemiche sul computo di posti letto “attivabili” ma non “attivati”, oppure pronti quanto a dotazione tecnica (letto, monitor…) ma inutilizzabili per mancanza di medici e infermieri. In Sicilia, catalogata zona arancione anziché rossa, ai manager degli ospedali è arrivato un messaggio audio da Mario La Rocca, dirigente generale dell’assessorato alla Salute: “Caricate i posti, non sento cazzi. Oggi faranno le valutazioni e in funzione dei posti letto in terapia intensiva decideranno in quale fascia la Sicilia risiede”. Secondo il Cimo, sindacato dei medici, i posti letto in terapia intensiva sarebbero 572 e non gli 817 “caricati” dalla Regione. Il ministero ha avviato un’ispezione affidata ai carabinieri dei Nas (Nuclei anti sofisticazioni).
Nei giorni successivi alla classificazione, il balletto dei dati prosegue. La cabina di regia per valutare i 21 parametri regionali sui dati relativi alla settimana 26 ottobre-1 novembre viene convocata sabato 7 novembre. Sabato viene spostata a domenica alle 15. Domenica mattina viene posticipata alle 16. Alle 14 viene rinviata a lunedì perché nove regioni non hanno mandato i dati. Il report dell’Istituto superiore di sanità conferma che i dati continuano ad arrivare in ritardo.
“Escludo il dolo. Quando il carico dei dati è pesante, ci possono essere difficoltà”, commenta il presidente dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro il 5 novembre, presentando il monitoraggio. In un webinar della Società italiana di statistica, ha ammesso che “la filiera Asl-Regioni-ministero-Istituto superiore di sanità funziona se la collazione dei dati è basata su standard omogenei, digitalizzata e completa”, ma in realtà avviene ancora “in modo cartaceo o semiautomatico”.
E talvolta non avviene affatto. Per esempio i medici di famiglia sarebbero le più capillari e tempestive sentinelle dell’evoluzione dell’epidemia, perché sono i primi a riscontrare la diffusione dei sintomi e quindi dei contagi. Infatti le tendenze rilevate empiricamente e condivise nelle chat dai medici di base anticipano i dati ufficiali almeno di una settimana. Per questo la Società italiana di statistica aveva proposto di utilizzarli. Impossibile: i dati dei medici di base si fermano alle Asl e da lì non possono uscire per problemi di privacy. Da marzo si sarebbe potuta approvare una norma per superare l’ostacolo, ma non si è fatto.
Quanto ai dati ospedalieri, sarebbero utilizzabili in tempo reale se fossero informatizzati. La cartella sanitaria elettronica, benché prevista tra i Lea (i livelli minimi di assistenza previsti per legge come obbligatori), in molte regioni è un miraggio. “Eterogeneo livello di informatizzazione” e “assenza di procedure che consentano l’armonizzazione dei dati clinici digitali tra reparti e Asl hanno reso difficoltosa la raccolta e arbitrario l’uso dei dati”, scrive la Società di statistica medica ed epidemiologia clinica.
Secondo Corrado Crocetta, docente all’università di Foggia e presidente della Società italiana di statistica, “i dati sono potere” e così si spiega la ritrosia a condividerli, servendosi di “foglie di fico” come le difficoltà tecniche e la privacy.
Allegoria del buco di dati sul Covid secondo il blog di scienziati scienzainrete.it, usando Linea di Osvaldo Cavandoli
Dolo o no, il problema è l’affidabilità dei dati. A metà novembre, mentre ovunque i dipartimenti di prevenzione delle Asl sono in tilt, alcune Regioni sostengono di garantire il tracciamento del 90% dei positivi, il che abbassa il rischio e scongiura la classificazione come zona rossa.
Anche i dati su tamponi e casi positivi non sono omogenei. Il tasso di positività (percentuale di positivi sui soggetti testati) dipende da molti fattori. Alcune regioni testano gli asintomatici, altre no. Alcune conteggiano, oltre ai tamponi molecolari, i test antigenici. Il che può far dimezzare il tasso di positività, come ha detto il presidente della Campania, Vincenzo De Luca, definendo la classificazione in zone “una buffonata”.
Peraltro non sappiamo a quando si riferiscono i dati dei tamponi. In Germania il sistema sanitario garantisce tre giorni tra richiesta e referto. In Italia la media è otto giorni ma ormai ogni Regione si arrangia come può. I social network grondano testimonianze di persone pur sintomatiche che hanno atteso invano il tampone per settimane.
Quanti positivi del bollettino odierno sono già usciti dall’isolamento domiciliare? Impossibile dirlo.
“I dati lasciati a loro stessi fanno danni, non fotografano la realtà ma l’efficienza dei nostri sistemi di monitoraggio”, hanno scritto il ricercatore del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche), Fabrizio Bianchi, e il direttore del blog scienzainrete.it, Luca Carra.
Eppure così, all’inizio di novembre, siamo stati divisi in regioni gialle, arancioni e rosse.
E sempre così alla fine di novembre abbiamo fatto il percorso inverso. Sebbene soltanto 2 regioni su 20 siano sotto la soglia di allerta del 30% di occupazione dei posti in terapia intensiva, le misure restrittive vengono allentate. La motivazione è che l’indice Rt è sceso ovunque. Ormai l’indice Rt lo conosciamo: ci dice quante persone infetta un infetto. Se superiore a 1, significa che il contagio aumenta. Se inferiore, che rallenta.
Ma come viene calcolato e che valore ha l’indice Rt? Secondo Enrico Bucci, biologo della Temple University di Philadelphia, essendo “calcolato sui sintomatici, con ritardo di due settimane e senza tener conto dei ritardi di trasmissione, è una fandonia”. Anche il collettivo di ricercatori StatGroup-19 ha da ridire: “La Valle D’Aosta riporta un Rt che è compreso tra quasi zero e circa 4, il Molise tra meno di 1 e quasi 3,5”, scrive dopo il primo monitoraggio. Forchette troppo ampie, considerando che secondo l’Istituto superiore di sanità bastano un paio di decimali in più o in meno per cambiare colore.
Consideriamo Lombardia e Piemonte, le regioni con i più alti tassi di saturazione ospedaliera e i più bassi tassi di identificazione delle catene di contagio. Il 6 novembre, sulla base dei dati rilevati nel periodo 19-25 ottobre, diventano zona rossa. Il 14 novembre, illustrando i dati del periodo 2-9 novembre, il presidente dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro annuncia che l’indice Rt, dopo aver sfiorato il valore 2, è sceso in Lombardia a 1,46 e in Piemonte a 1,31. Quindi potrebbero diventare arancioni, se non fosse che il Dpcm prevede una immutabilità cromatica, almeno al ribasso, di almeno due settimane. Nello stesso giorno in Lombardia le terapie intensive sono piene al 58% (soglia critica 30%) e i reparti di area medica al 48% (soglia critica il 40%). In Piemonte i dati sono 59% in terapia intensiva e addirittura 92% in area medica.
Il 15 novembre la Toscana diventa zona rossa. Il governatore Eugenio Giani si dice “sorpreso e amareggiato, perché i dati sono migliorati rispetto a una settimana fa”. In effetti negli ultimi giorni i contagi sono passati da 2700 a 2000, il rapporto contagi-tamponi dal 16% al 13%.
Tutto si spiega con il fatto che le decisioni di oggi vengono prese su dati comunicati 10 giorni fa relativi a tamponi effettuati 20 giorni fa su persone che hanno contratto l’infezione un mese fa. È il motivo per cui Cartabellotta paragona l’indice Rt “a uno specchietto retrovisore”, mentre servirebbe “un binocolo”.
In un articolo pubblicato su scienzainrete.it e intitolato “La curiosa attrazione verso l’indice Rt”, Guido Sanguinetti, professore di fisica alla Scuola internazionale di studi superiori avanzati di Trieste, scrive che “l’Rt è certamente un indice molto importante: se maggiore di 1 ci troviamo di fronte a una crescita esponenziale, ed è doveroso intervenire per fermare l’epidemia. Ma non può essere il solo criterio adottato per rimuovere restrizioni: infatti, quale che sia l’indice Rt, se il numero di infezioni è troppo alto per permettere un’attività di tracciamento efficace, rimuovere le restrizioni condurrà inevitabilmente alla ripartenza dell’epidemia. In sintesi, l’Rt è un indice importante per decidere quando chiudere, ma è del tutto irrilevante per decidere quando riaprire”.
Un dettaglio tecnico, ma decisivo, è che in Italia l’indice Rt si calcola solo sui pazienti sintomatici. Con effetti paradossali, che penalizzano le regioni più virtuose. Come ha rilevato Stefania Salmaso, ex direttrice del centro nazionale di epidemiologia dell’Istituto superiore di sanità, “alcune regioni hanno registrato l’inizio sintomi nel 40% dei casi e sono gialle, altre nel 90% e sono arancioni, perché il dato serve a calcolare l’Rt”.
All’inizio di novembre, quando si valuta per la prima volta la classificazione delle regioni, la Campania resta gialla anche per l’alto tasso di asintomatici, che abbassa l’Rt come in Toscana. La Liguria riesce a indicare la data di inizio sintomi nel 49,4% dei casi, l’Umbria nel 18%. Per l’Istituto superiore di sanità scatta l’allerta sotto il 60%, con “rischio di sottostima dell’Rt”. Eppure tutte queste regioni vengono classificate gialle, salvo diventare arancioni dopo meno di una settimana. E tornare gialle a fine novembre.
Il 27 novembre, sulla base dei dati riferiti al periodo 16-22- novembre, l’Istituto superiore di sanità scrive che ci sono ancora dieci regioni “classificate a rischio alto di trasmissione”: Abruzzo, Campania, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lombardia, Provincia di Bolzano, Puglia, Sardegna, Toscana e Calabria. Quest’ultima giudicata “non valutabile” per l’inaffidabilità dei dati che fornisce e quindi equiparata automaticamente a rischio alto. Eppure la nuova ordinanza del ministero stabilisce il passaggio di Calabria, Lombardia e Piemonte da rosso a arancione; Liguria e Sicilia da arancione a giallo.
Il 29 novembre In Lombardia e Piemonte riaprono i negozi e cessano le limitazioni di spostamento. Due giorni dopo l’Agenas (Agenzia per i servizi sanitari regionali) certifica che entrambe hanno un tasso di occupazione delle terapie intensive del 60%, doppio rispetto alla soglia di allarme; quanto agli altri reparti, la Lombardia è al 49%, il Piemonte all’80% (soglia di allarme 40%). Anche la Liguria ha ospedalizzazioni oltre la soglia di allarme, ma riapre bar e ristoranti a pranzo.
All’Immacolata di rosso resterà solo l’Abruzzo e 32 milioni di italiani abiteranno in zona gialla. A metà dicembre saranno 50 milioni. A Natale, tutta l’Italia sarà zona gialla. È già tutto scritto, perché le decisioni si basano su dati vecchi. Anche se negli stessi giorni il ministro Speranza dice che non siamo ancora a una “gestione sostenibile dell’epidemia”. Secondo Stefano Merler, epidemiologo della fondazione Bruno Kessler, la sostenibilità dipende da un numero di casi non superiore a 10mila al giorno. Si è scelto di cambiare le regole con più del doppio di contagi e quasi mille morti al giorno.
Secondo il fisico Sanguinetti, l’allentamento delle misure dovrebbe piuttosto dipendere da altri fattori, legati all’organizzazione e all’efficienza del sistema sanitario: adeguatezza dei servizi di tracciamento, tempestività diagnostica, capacità di cure sia domiciliari che ospedaliere. “L’indice Rt ha ricevuto un’attenzione spropositata negli ultimi tempi: è stato più volte criticato per le stime inaffidabili (certamente un problema, soprattutto quando i casi sono pochi), ma in ogni caso è stato seguito e monitorato come se fosse l’unico numero da cui dipende la nostra sorte. Questa ossessione è perniciosa”.
Se si sceglie di gestire la pandemia affidandosi ai numeri, occorre che siano precisi, omogenei, aggiornati e condivisi. In Italia lo sono? Gli esperti sostengono di no. “Stiamo affrontando la pandemia con gli strumenti della peste del Manzoni” (Corrado Crocetta, statistico, università di Foggia), “con una benda sugli occhi” (Fabio Sabatini, economista, università La Sapienza), “come mosche accecate” (Enrico Bucci, biologo, Temple University di Philadelphia).
Nella conferenza stampa del 4 novembre, il premier Conte aveva preso un impegno: “Ho chiesto al ministero della Salute e anche al direttore dell’Istituto superiore di sanità di condividere i dati del monitoraggio. Vogliamo che siano accessibili alla comunità scientifica e a tutti i cittadini”.
Il 6 novembre, sul sito datibenecomune.it, 156 associazioni (tra cui Coscioni, Gimbe, Open Polis, Legambiente) hanno lanciato una petizione, firmata da 40 mila persone, per chiedere “dati pubblici, disaggregati, continuamente aggiornati, ben documentati e facilmente accessibili a ricercatori, decisori, media e cittadini”. Il 10 novembre il ministero della Salute ha pubblicato per la prima volta l’aggiornamento dei 21 indicatori, ma non disaggregati e in un formato elettronico chiuso, che ne impedisce un uso immediato da parte degli studiosi.
Successivamente il governo si è impegnato a condividere tutti i dati con l’Accademia dei Lincei, il cui presidente, il fisico Giorgio Parisi, da giugno aveva promosso un appello in tal senso. L’impegno ha prodotto una convenzione ma, finora, nulla di concreto è accaduto. Fonti riservate spiegano che non è ancora noto come e quando i primi dati potrebbero essere condivisi. Per questo il 26 novembre l’associazione Luca Coscioni ha lanciato CovidLeaks, una piattaforma di segnalazioni che protegge l’identità del mittente, “finalizzata a portare alla luce i dati sul coronavirus”.
Gli ex presidente dell’Istat Alleva e Zuliani pensano però che il dato più importante per controllare e gestire l’epidemia non lo conosciamo e non lo conosceremmo comunque. Si tratta del tasso di contagio sulla popolazione, rilevato con cadenza settimanale o bisettimanale. “Sembra incredibile, ma a otto mesi dai primi casi non si conosce e quindi non si può tenere sotto controllo”.
Testare 60 milioni di italiani in un dato momento è impossibile. Ma grazie alla statistica sapere quanti italiani sono stati contagiati in un dato momento non è impossibile. Alleva e Zuliani hanno proposto, mesi fa, un sistema di monitoraggio su vari livelli: un campione generale di almeno 10mila italiani per conoscere con cadenza settimanale tasso di contagio ed evoluzione dell’epidemia quanto a sintomi, tipo di assistenza, eventuale ricovero, guarigione o morte, patologie pregresse, tutto diviso per età e genere; un altro campione di alunni e professori per verificare il contagio nel sistema scolastico; un database in tempo reale su terapie intensive e sub-intensive con tassi di saturazione, letalità, guarigioni, degenza media; un’analisi scorporata sulla tipologia di sintomi.
Qualcosa si era cominciato a fare dopo il lockdown, con la rilevazione svolta da ministero e Istat fra giugno e agosto. Ma l’indagine si è basata solo su 64.660 rilevazioni, anziché sulle 150.000 programmate. Meno della metà delle persone selezionate nel campione, con conseguente aumento del margine di errore. Un altro elemento distorsivo è stato l’elevato rifiuto a partecipare all’indagine, che “sporca” il campione.
“Ci sono state carenze organizzative”, spiegano i due ex presidenti dell’Istat. Primo errore: non coinvolgere i medici di base, perché “un conto è essere contattati dal proprio medico, altro telefonicamente da un ignoto incaricato della Croce Rossa”. Secondo: non imporre l’obbligo di risposta almeno al questionario e non sollecitare fortemente l’adesione al test, considerata la rilevanza dell’indagine per la salute della popolazione. Terzo: non prevedere le possibili resistenze, anche legittime. Un esempio per tutti: se positivi al test sierologico, si doveva fare anche il tampone e nell’attesa dell’esito astenersi dal lavoro. Sarebbe stato opportuno prevedere che i giorni di mancata attività fossero considerati assenza per malattia nel caso di lavoro dipendente. Quarto: non lanciare una massiccia campagna di comunicazione pubblica (spot, dichiarazioni istituzionali, testimonial) in modo da introiettare nell’opinione pubblica l’importanza del contributo individuale al contrasto dell’epidemia.
Concludono Alleva a Zuliani: “Il coordinamento istituzionale è parso svogliato. L’indagine è sembrata più “sopportata” che voluta, sottovalutandone l’importanza”.
Nonostante ciò, i risultati sono stati interessanti. Le persone che hanno sviluppato gli anticorpi prima di giugno-luglio sono state stimate in 1.482.000, il 2,5% della popolazione residente in famiglia. Sei volte più del totale dei casi intercettati ufficialmente con i tamponi.
Se l’indagine fosse stata portata avanti, o se la proposta di Alleva e Zuliani fosse stata ascoltata, non avremmo azzerato le incertezze che il contenimento di un virus sconosciuto inevitabilmente comporta. Ma avremmo più informazioni, e più affidabili dei fax stropicciati e dei fogli excel incompleti, per fare quello che il professor Crocetta chiama “fine tuning”.
Una sintonia fine delle regole, dei divieti, dei comportamenti. Invece siamo ancora prigionieri dell’alternativa del diavolo chiudere tutto/aprire tutto.